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22 luglio 2019

"I topi grigi. Il romanzo cinematografico di Za la Mort" di Denis Lotti

(Articolo apparso sul Giornale di Vicenza il 21 giugno 2019)

di Fabio Giaretta

Dopo aver contribuito in modo decisivo alla riscoperta di Emilio Ghione con “L’ultimo apache”, il vicentino Denis Lotti, docente di storia del cinema all’Università di Padova, torna a confrontarsi con questa figura cardine del cinema muto italiano attraverso il saggio “I Topi Grigi. Il romanzo cinematografico di Za la Mort” (Mimesis, pagg. 98). In questo nuovo libro Lotti concentra la sua analisi sul serial in otto puntate, intitolato “I Topi Grigi”, scritto, diretto e interpretato da Ghione, che debutta in sala il 6 giugno 1918, mentre l’esercito italiano sta per affrontare la battaglia del Solstizio contro gli austriaci (15 - 24 giugno 1918). Protagonista è l’apache parigino Za la Mort, eroe oscuro dalle nobili origini, il quale, persa ogni ricchezza a causa di un parente disonesto, decide di vivere nei bassifondi parigini, tramutandosi in un misterioso vendicatore e tutore dell’ordine. Accanto a Za la Mort, che nel gergo sprezzante della malavita significa “Viva la morte”, troviamo l’amata Za la Vie, interpretata da Kally Sambucini, a cui Ghione fu legato anche nella vita. Il serial, tra i più lunghi dell’epoca e appartenente ad un ciclo di trentasei titoli complessivi dedicati a Za la Mort, prende le mosse da una busta nera posseduta dai Topi Grigi, una banda di ladri guidati da Grigione, che svelerebbe l’identità di un ragazzo salvato dall’apache parigino. Il tentativo di recuperare la busta dà il via a molte peripezie che portano l’eroe a viaggiare nelle più diverse ed esotiche parti del mondo.
Gli elementi più interessanti di questo ambizioso prodotto, realizzato con mezzi artigianali per un vasto pubblico, sono la contaminazione di stili e generi (legati per lo più alla letteratura popolare dell’Ottocento, soprattutto d’oltralpe), la visione globetrotter piuttosto rara nel nostro cinema, la forza espressiva della recitazione di Ghione “che colma le lacune tecniche di una regia che si limita a stabilire il punto di vista”, e l’uso, seppur ancora embrionale, del cliffhanger, cioè la sospensione e il collegamento tra le puntante per tenere alta la suspense. 
“I Topi Grigi” ha avuto una notevole fortuna critica soprattutto grazie ad un articolo di Umberto Barbaro che colpito dalla messa in scena, a suo dire, molto più realistica dei film del tempo, coniò l’etichetta di Neo-realismo destinata ad essere ripresa, con un valore ben più pregnante, per identificare un’irripetibile stagione del cinema italiano. A testimoniare la presenza nell’immaginario di questo serial è anche una poesia di Sanguineti intitolata FILM/A/TO e dedicata a vari film tra cui I Topi Grigi: “il ladro gentiluomo è proprio un gentiluomo: è Za-la-Mort: / ma i Topi Grigi sono topi, proprio: e poi c’è Za-la-Vie:”.


Denis Lotti insegna Studi sull’attore nel cinema presso l’Università degli Studi di Padova e Caratteri del cinema muto presso l’Università degli Studi di Udine. Si occupa di storia del cinema italiano, in particolare del cinema muto. Fra l’altro, ha pubblicato le monografie L’ultimo apache. Emilio Ghione, vita e film di un divo italiano (2008), La documentazione cinematografica (con Paolo Caneppele, 2014), Muscoli e frac. Il divismo maschile nel cinema muto italiano (2016), nonché le curatele Za la Mort (2012) e Quattro anni fra le “Stelle” (2017). È protagonista del documentario Rai Sperduti nel buio (2014).

"Emilio Ghione. L'ultimo apache. Vita e film di un divo italiano" di Denis Lotti



(Articolo apparso sul Giornale di Vicenza)

di Fabio Giaretta

Pochi, anche tra gli studiosi e gli appassionati di cinema, ricordano oggi il nome di Emilio Ghione, una delle personalità più interessanti del cinema muto italiano. Dopo avergli dedicato una tesi di laurea, vincitrice del Premio internazionale Filippo Sacchi 2007, e alcuni articoli, il vicentino Denis Lotti, docente di storia del cinema all’Università di Padova, ha pubblicato il saggio Emilio Ghione. L’ultimo apache. Vita e film di un divo italiano (Cineteca di Bologna, 206 pp., euro 14), che rappresenta un contributo decisivo per la riscoperta di questa figura. 
Ghione fu attore, regista, sceneggiatore, scrittore, divo. Fu anche il primo storico del cinema italiano muto, al quale dedicò il saggio La Parabole du Cinéma italien, pubblicato postumo in Francia. In lui si rispecchia la parabola del cinema muto italiano, dal suo massimo sviluppo al suo inarrestabile declino. Lotti ricostruisce con grande rigore la sua vita, le sue opere, il contesto culturale, produttivo e cinematografico nel quale visse, attraverso la minuziosa esplorazione di moltissimi documenti filmici e extra-filmici conservati in archivi italiani e stranieri.  Tra i vari materiali rinvenuti e raccolti da Lotti, grande importanza riveste l’autobiografia di Ghione, Memorie e confessioni, pubblicata a margine della rivista “Cinemalia” da marzo a dicembre 1928, e utilizzata per la prima volta in uno studio sull’attore e regista.
Emilio Ghione nasce a Torino il 30 luglio del 1879. Per tutta la giovinezza segue il mestiere del padre, Celestino Ghione, che di professione fa il pittore, e si specializza nella miniatura. Il debutto cinematografico avviene nel 1909, in un film di cui non si conosce il titolo, nel quale interpreta, per pochi istanti, la parte di un guerriero a cavallo. Ottiene i primi successi personali nel 1911 con La Gerusalemme liberata e Il poverello di Assisi, entrambi diretti da Enrico Guazzoni. La recitazione di Ghione si caratterizza fin da subito per il suo carattere antiteatrale e per la tensione drammaturgica comunicata attraverso l’uso totale del corpo.  Nel 1913 esordisce anche come regista con Il circolo nero e Idolo infranto. Nel 1914 si ha l’esordio cinematografico di Za la Mort, nel film Nelly la gigolette, personaggio che otterrà un enorme successo e a cui Ghione deve buona parte della sua fama. Nella sua vasta filmografia, oggi in gran parte perduta, ma accuratamente ricostruita e analizzata da Lotti, i film che hanno per protagonista Za la Mort sono ben diciassette. Quattro di questi, ovvero Il triangolo giallo (1917), I topi grigi (1918), Dollari e fracks (1919) e Zalamort. Der Traum der Zalavie (1924) hanno la struttura del serial a puntate.
Ghione inventa questo personaggio rifacendosi alle storie degli apache parigini che godono di successo duraturo dalla metà del XIX secolo almeno fino alla prima guerra mondiale. L’appellativo apache viene riferito agli abitanti del demi monde, ovvero i bassifondi degradati di Parigi che tanto spazio hanno in molta letteratura d’appendice. Altre parentele illustri sono quelle con Arsène Lupin e con Fantômas, soprattutto per l’eccellenza di Za la Mort nell’arte del travestimento. La maggioranza dei film della serie vede l’apache nel ruolo di eroe giustiziere e difensore dei deboli. Strettamente connessa a Za la Mort, che nel gergo sprezzante della malavita significa “Viva la morte”, è la figura di Za la vie, compagna dell’eroe oscuro, interpretata da Kally Sambucini, a cui Ghione fu legato anche nella vita. La saga di Za la Mort presenta però varie incongruenze tanto che in alcuni film, come in Sua Eccellenza la Morte (1919), egli non appare come il giustiziere votato alla lotta contro il crimine ma come un apache assassino, senza codice morale. Oltre ai film, Ghione dedicò al suo personaggio più celebre anche due romanzi, Za la Mort, pubblicato nel 1925 e L’ombra di Za la Mort, pubblicato nel 1929.
Tra gli ultimi suoi film vanno ricordati La cavalcata ardente (1925) di Carmine Gallone e Gli Ultimi giorni di Pompei  (1926) di Amleto Palermi e Carmine Gallone. Le interpretazioni che Ghione regala in questi due film rimarranno nella memoria collettiva dei posteri. Gli ultimi anni vedono un graduale declino, per Ghione è difficile ottenere una semplice scrittura anche come comparsa ed è costretto suo malgrado ad accettare di recitare in teatro. Muore il 7 gennaio del 1930 alla presenza di Kally Sambucini e del figlio Piero. La salma è tumulata il giorno 11 gennaio nel cimitero del Verano in Roma, in un loculo ancora presente. Lo scolorito epitaffio recita: portò glorioso per il mondo / il nome dell’arte muta italiana / artista e signore / ne seguì la dolorosa sorte dalla ricchezza giunse alla povertà / l’affetto di pochi fu l’ultima sua gioia.

16 luglio 2019

Intervista a Stefano Massini per "Qualcosa sui Lehman"


Mi piace pubblicare, seppur con un ritardo di due anni, questa intervista a Stefano Massini, nata in occasione del tour Premio Campiello 2017 per lo straordinario e geniale romanzo “Qualcosa sui Lehman”. Una versione assai più ridotta di questa è uscita sul Giornale di Vicenza. Molto era rimasto da sbobinare di una lunga intervista telefonica ad Asiago, fatta in auto con il sole cocente di luglio che arroventava sempre più l'abitacolo mentre un cane abbaiava senza sosta sovrapponendosi alla parole di Massini. Finalmente ho trovato il tempo.



Per Stefano Massini, autore del sorprendente e corposo romanzo “Qualcosa sui Lehman” (Mondadori, pagg. 773), la letteratura deve sempre avere anche un fine pratico, deve cioè aiutare a capire la realtà che ci circonda. In tal senso la storia dei Lehman Brothers è in grado di darci una nitida fotografia della nostra società nella quale la ricchezza è divenuta il metro di valutazione di ogni cosa. In questo libro, che trascende volutamente qualsiasi genere, lo scrittore e drammaturgo fiorentino racconta, in modo avvincente e senza mai scadere nella retorica, l’epopea dei Lehman dal 1844, quando il fondatore Henry parte dalla Germania e sbarca in America, fino al rovinoso crollo del 2008. In mezzo tre generazioni di uomini che via via si allontanano dalle loro radici, sostituendo i riti della cultura e della religione ebraica, di cui Massini si rivela profondo conoscitore, con quelli del capitalismo più cinico e sfrenato.
Come mai ha scelto di affrontare un tema così ostico come quello della finanza attraverso la storia dei Lehman?
La risposta è semplicissima: perché mi sono reso conto che, da estraneo al mondo dell’economia, c’era soltanto una pagina, un fascicolo di ogni quotidiano che saltavo a piè pari perché non lo capivo ed era l’insieme delle pagine riguardanti l’economia. Questa parte del giornale la saltavo come se proprio rinunciassi a capirla e credo che sia una cosa che fanno in molti. Ad un certo punto mi sono però reso conto che era una cosa completamente senza senso perché poche cose in realtà avevano una ricaduta su di me come l’economia: io pagavo il mutuo, avevo delle ritenute sullo stipendio per cui in qualche modo ero profondamente collegato al tema dell’economia, aveva delle conseguenze profonde sulla mia vita quotidiana. È come se noi rinunciassimo a capire il linguaggio dei medici perché è poco comprensibile ma in realtà ci parlano di qualcosa che riguarda la nostra salute cioè una cosa alla quale teniamo. Ecco è un po’ lo stesso. E allora ho deciso di scrivere qualcosa sull’economia che servisse un po’ a spiegarla con parole semplici. Da qui è nata la scelta di raccontare una storia di economia attraverso il filtro di una grande storia familiare, di una grande storia di esseri umani che ce la mettono tutta per affrontare i loro problemi e le sfide della società in cui vivono.
Lei all’inizio del libro scrive, riferendosi ai Lehman, che non tutti potranno dire di essere divenuti una metafora. Che metafora rappresentano a suo avviso?
Sono una metafora enorme di un fenomeno al quale tutti abbiamo prestato pochissima attenzione ed è il fatto che nel corso del Novecento siamo passati – e questo la storia dei Lehman lo racconta molto bene – da una società bassata ancora sulla materia, sulla concretezza (nel caso dei Lehman cominciano a lavorare il cotone, poi passano al caffè, al petrolio, tutte cose concrete, che puoi toccare, sono insomma delle merci) al disprezzo per tutto ciò che era materia, concreto, merce, e senza che ce ne rendessimo conto il denaro ha iniziato ad essere usato non per finanziare delle merci ma per comprare altro denaro, il denaro che  finanzia altro denaro e si è entrati in un mondo completamente scisso dalla realtà in cui tutto è numerico, astratto, è un valzer di numeri. Questo è evidente nella storia dei Lehman che sono passati da un negozio di stoffe ad una grande holding internazionale.
Il libro racconta la scalata economica dei Lehman Brothers attraverso tre generazioni. In che modo si è documentato per questo libro? Quali sono le fonti storiche a cui ha attinto? Dove finisce la realtà storica e comincia la finzione?
Mi sono documentato tantissimo, è stato un lavoro enorme. I personaggi che io racconto sono tutti assolutamente veri, reali, non solo sono assolutamente veri e reali ma anche i lineamenti del loro carattere, i modi di essere, sono veri i matrimoni, è vero tutto quanto. Ci ho messo un anno a informarmi prima di scrivere questo tomo così enorme. L’ho fatto perché dobbiamo tener presente che negli Stati Uniti pronunciare il nome Lehman è un po’ come se in Italia tu pronunciassi il nome Agnelli. Di queste famiglie si conoscono le vicende, i figli, le dinamiche, i matrimoni. Negli Stati Uniti c’è una ricca produzione riguardante la famiglia Lehman che qui da noi ovviamente è meno famosa non essendo una famiglia italiana. È quindi tutto vero, chiaramente quello che mi sono preso la libertà di inventare e di integrare è l’insieme delle modalità che sono occorse per mostrare quelle personalità. Per cui i modi in cui andarono gli incontri tra queste persone, le parole che questi si dissero, quelle chiaramente sono invenzioni. È una forma di sceneggiatura, ovviamente, però i personaggi sono reali, veri, anagraficamente inappuntabili. Come dicevo prima ci ho messo molto tempo perché c’era una doppia documentazione da fare: da una parte la storia vera della famiglia Lehman, quindi chi erano, com’erano, dall’altra quella legata all’economia, c’era cioè da fare un lavoro di apprendimento da parte mia su come funziona questo mondo che non conoscevo.
In effetti è riuscito nell’intento di rendere molto chiari concetti economici difficili e astrusi…
Questa è una delle cose che mi fanno più piacere. Quando qualcuno viene da me e mi dice: guardi, grazie al suo libro ho capito qualcosa che pensavo non avrei mai capito, per me è fantastico. Sono sempre stato convinto che il teatro da un lato e ora che mi occupo di libri, i libri, debbano sempre avere anche un obiettivo pratico, cioè devono essere utili, devono darti delle forme per concepire e capire l’esistenza di tutto ciò che ti sta ruotando intorno. Non deve necessariamente essere l’economia o una forma di scienza, può anche essere un libro sui sentimenti umani, però deve esserci qualcosa per cui un libro ti è utile. Per me questo è essenziale.
Questo libro mostra anche come tutte le categorie novecentesche con cui noi interpretiamo tuttora la realtà sono venute meno…
La sensazione che ho sempre avuto io è che con il cosiddetto crollo delle ideologie si è in qualche modo imposto inevitabilmente un vuoto che in qualche modo ancora non è stato superato, nel senso che noi tendiamo ancora oggi, purtroppo, a leggere affannosamente la realtà con delle forme di lettura non più adatte. Pensiamo alla politica che sta continuando, ancora oggi, a cercare di risolvere i problemi con la dialettica tra destra e sinistra. Cioè noi non abbiamo ancora superato uno schema interpretativo che evidentemente è novecentesco. Secondo me la storia dei Lehman parla un po’ anche di questo perché racconta che il mondo cambia inevitabilmente e vertiginosamente intorno a chi lo popola, e chi lo abita dovrebbe cercare sempre – e questo, devo dire, gran parte dei Lehman hanno cercato di farlo – di stare in ascolto di che cosa l’umanità stava per chiedere. Questo ascolto si è rivelato poi fondamentale perché hanno saputo prevenire alcune risposte dell’umanità come il computer o quando si inventano quella che allora sembrava un’utopia cioè il fatto che ci potesse essere una società interamente basata sul cinema. Chi potrebbe mai pensare, compreso me, che una banca in realtà è artefice di capolavori del cinema o di carriere di attori? Da un certo punto di vista, questa, questa è la forza dell’economia.
Perché ha usato il termine “qualcosa” nel titolo? In verità il libro racconta ampiamente e con molti dettagli la scalata di questa famiglia…
È un titolo ironico infatti. C'è una cosa che a me preme molto e a cui penso frequentemente in questo ultimo mese e mezzo di Campiello: sono molto contento di essere arrivato finalista al Premio Campiello intanto perché era la prima volta che scrivevo un libro e già essere arrivato nella Cinquina dei finalisti è un successo; ma anche perché alla fine il Veneto così come la Toscana dalla quale io vengo, sono terre che hanno saputo veramente costruire un equilibrio economico incredibile sulla base dell’azienda a conduzione familiare. Per cui trovo che la storia dei Lehman sia quanto mai al posto giusto in questo premio perché è davvero la storia di una conduzione familiare tanto che, quando muore Bobbie, l’ultimo dei Lehman, la mia storia va verso il finale. Terminata la vita di colui che aveva dato per ultimo il cognome alla banca senza avere eredi è chiaro che a questo punto la banca si perde. E questa credo che sia una cosa tutto sommato bella perché è la dimostrazione, in qualche modo, che le famiglie sono anche dei centri di produzione e questa storia secondo me lo racconta anche nei suoi aspetti conflittuali attraverso le liti fra i due fratelli, tra i padri e i figli. Le asperità ci sono, niente è soltanto sorridente e bello. Io cerco di raccontare questa storia perché trovo che non riguarda soltanto gli Stati Uniti, non riguarda soltanto la finanza americana ma riguarda tutti noi.
Il punto di vista che lei sceglie è quello un narratore onnisciente che però non giudica mai i suoi personaggi. Sono i fatti, le azioni che compiono a porli davanti al tribunale dei lettori. C’è una ragione per cui ha scelto questo punto di vista?
Provenire dal mondo del teatro mi ha molto aiutato perché in teatro la retorica è pericolosissima e c’è una ragione fondamentale per cui questo avviene secondo me: in teatro tu sei nel palcoscenico in carne ed ossa quindi se dici qualcosa di retorico anche tu lo senti tornare addosso. A volte invece nei libri è potenzialmente più facile essere retorici per il semplice fatto che l’autore non c’è quando il lettore legge quindi è meno percepibile da parte sua il luogo comune. Io ho cercato di stare attentissimo a questo discorso ponendomi proprio in una condizione di non giudizio anche perché, detto sinceramente, tutto voglio essere fuorché un difensore dell’alta finanza che ha fatto gravi danni. Certo quando cominciai a scrivere i Lehman c’era intorno a me, e c’è tuttora a distanza di anni, anzi forse è peggiorato, un fortissimo sentimento antibancario e antieconomico. Oggi in questa Italia reduce da enormi scandali come quello del Monte dei Paschi o delle banche del Veneto c’è un forte sentimento antibancario per cui si dice che le banche sono tutte ladre. In realtà il problema è molto più complesso perché fondamentalmente stiamo parlando del cambiamento che ha avuto in questi ultimi anni il concetto di ricchezza. Oggi la ricchezza è diventata tutto, lo spartiacque, il metro di valutazione di tutto quanto, l’elemento determinante per tante cose. Pensiamo nel mondo a quanti milionari sono stati eletti presidenti. Io però non devo far percepire alcun giudizio, devo soltanto raccontare una storia. Tra l’altro alla fine l’economia nel mio libro c’è, è un elemento potente, centrale, però è anche secondaria perché questa è una storia di esseri umani, di famiglie, di corteggiamenti, di liti, è una grande saga familiare. L’economia c’è ma è come se andasse sullo sfondo, come se tu la vedessi in filigrana attraverso un filtro che è quello della saga familiare.
In verità, accecati da questo sentimento antibancario, spesso non teniamo conto che a muovere le banche è il desiderio di arricchimento facile della gente. Nessuno in fondo è innocente e questo nel libro appare chiaro…  
Questa tra l’altro è una cosa che c’è anche nella nostra letteratura, di tanto in tanto compare in modo molto chiaro ad esempio pensiamo a Pinocchio quando mette da parte i soldi e li dà al Gatto e la Volpe perché gli dicono: dammi i soldi, te li sotterriamo nel Campo dei miracoli e domani mattina troverai il doppio senza sudare, senza faticare, senza lavorare. La voglia di arricchirsi senza lavorare è uno dei grandi miti che ci portiamo dietro e che nasconde anche delle grosse fregature. Evidentemente sotto questo punto di vista dobbiamo essere onesti nel dirci che purtroppo siamo tutti noi che vorremmo arricchirci senza faticare.
Il libro, nonostante il tema, è ricco di momenti esilaranti e spassosissimi. L’’uso a piene mani che lei fa dell’ironia e che è senz’altro la cifra dominate del romanzo sembra quasi un modo per ridimensionare la religione dei soldi dei Lehman, per creare una sorta di straniamento nel lettore rispetto alle vicende narrate… Era questo il suo intento?
La risata è un elemento fondamentale per me ed è fondamentale anche che venga scritto perché io a volte ho come la sensazione che le persone vedendo il mio libro, vedendo la mole, sentendo che tratta di economia è come se si impaurissero. Invece io credo che sia un libro che fa anche ridere, poi c’è un elemento di ironia ebraica molto forte, molto dichiarato. Questa è una storia che nasce ebraica, l’elemento yiddish è molto forte, non a caso i Lehman sono ebrei che vengono dalla Germania. Quindi quando racconti una storia che viene da quelle origini lì è inevitabile la forte presenza dell’ironia yiddish e quindi la presa in giro di sé stessi e degli altri. Il riso è determinante, imprescindibile nella cultura ebraica. Probabilmente sentendo che questa era una vicenda per molti aspetti vissuta dalla società che avrebbe accolto il mio libro come argomento ostico ho sentito più che mai il bisogno di alleggerirlo e di dare al pubblico un premio. Per cui tu stai leggendo una storia che sicuramente ti può impressionare perché è lunga e articolata, ma io cerco di raccontarla in un modo che ti appassioni, infatti nel libro succedono una miriade di fatti, il mio non è un libro teorico, non è un saggio, è fatto di accadimenti, racconta un’avventura che poi è quella della contemporaneità.
Può spiegarci meglio in che modo è stato influenzato dall’ironia ebraica?
In tante altre culture, ad esempio in quella cattolica, ci sono dei blocchi, delle cose delle quali non si può ridere. Anche nella nostra cultura politica è così. Se tu vai a vedere i politici del dopoguerra democristiani, comunisti e di destra, ti accorgi che il riso è completamente bandito dal viso dei nostri politici perché nella tradizione anche di sinistra ridere era considerato disdicevole. Per cui si devono aspettare decenni perché sul viso dei nostri politici cominci a baluginare un sorriso. Ecco, nella cultura ebraica, viceversa, tutto può essere oggetto di riso e di ironia e questo è un elemento fortissimo e preponderante nella cultura ebraica e nella letteratura ebraica come ad esempio in Kafka, un autore che ha avuto questa ironia anche tragica per raccontare le cose. Tutto “La metamorfosi” di Kafka è basato su un assunto profondamente ironico.
l libro è intriso di cultura ebraica e Yiddish tanto che sembra scritto da un ebreo. Lei però non è ebreo. Come ha fatto a raggiungere una conoscenza così approfondita e duttile di questa cultura?
Questo nasce dalla mia biografia. Quando ero molto piccolo mio padre strinse un’amicizia fortissima con uno degli anziani della comunità ebraica di Firenze dove vivo. La moglie di quest’uomo era la maestra nella scuola elementare ebraica di Firenze ed io quindi ho avuto la possibilità per un po’ di tempo di avere un doppio insegnamento, cioè sia la scuola normale italiana, sia la scuola ebraica. E questo per me è stato fondamentale perché mi ha aperto gli occhi su una cultura completamente diversa rispetto alla mia e su un mondo che altrimenti non avrei mai conosciuto. In qualche modo sono cresciuto con un piede su due staffe, in quanto mi ritengo sia occidentale, sia privo di origini, o perlomeno aperto al mondo, come tutto l’ebraismo che grazie alla diaspora è aperto a tutte le grandi forme di contaminazione dei popoli con cui il popolo ebraico è entrato in rapporto. Quindi è un mondo aperto alle più disparate provenienze e per me questo è stato fondamentale per togliermi una tendenza a parlare di cose solo italiane. Nei miei testi fino ad ora non ho mai parlato di cose italiane. E ci sarà una ragione. In qualche modo credo che oggi tutti, nell’era di internet, siamo cittadini del mondo, è cambiato profondamente il mondo rispetto a quindici anni fa nel senso che oggi con un battito di ciglia posso chattare con qualcuno che è in Australia. Questa facilità non è priva di conseguenze nel nostro modo anche di raccontare le storie. Pensi che i Lehman verrà messo in scena da uno dei più grandi registi di Hollywood che è Sam Mendes. Questa è una cosa incredibilmente bella per chiunque oggi provi a scrivere. Questa storia di un gruppo di ebrei tedeschi diventati americani viene raccontata da un italiano e viene messa in scena da un inglese. È la dimostrazione che di fatto oggi non esistono più patenti di pertinenza geografica, tutti quanti possiamo raccontare delle storie che semplicemente ci riguardano, perché riguardano il mondo intero.
Il protagonista principale del libro è senz’altro il denaro. Tutto viene sacrificato in su nome. Eppure nel passare da una generazione all’altra si nota una costante perdita di valori morali e religiosi, uno scadimento umano sempre più evidente. Questo nel libro vien ben messo in evidenza. Come mai ha voluto sottolineare questo fatto?
È assolutamente così per cui questa è anche la storia di un progressivo allontanamento dalle proprie radici. Sia il papa Ratzinger sia papa Bergoglio hanno parlato più di una volta dei rischi enormi del relativismo oggi. Ecco questo libro parla anche del fatto che oggi tutto è relativizzato rispetto al passato, e quindi i riti che i primi Lehman si portano dietro dall’Europa vengono progressivamente considerati sempre meno importanti fino a scadere in una dimenticanza generale. Rimangono soltanto come dei ricordi sullo sfondo. In realtà però è complicato. Per esempio Bobbie, che è l’ultimo dei nostri Lehamn, si allontana da questi riti perché ormai, quando qualcuno dei Lehman muore, non è più vantaggioso sospendere tutta la produzione della banca per un certo numero di giorni come in passato, per cui viene detto che si fa un minuto di silenzio, che si mette la bandiera a mezz’asta. Però la memoria di queste lontane origini rimane perché Bobbie alla fine è ossessionato durante la notte da incubi e sogni, che sono un altro elemento portante di questo libro, nei quali spesso sogna i profeti della tradizione ebraica che da piccolo studiava, però li sogna in un modo deformato e narrativamente lontano dal quella che è la Bibbia. Sicuramente il tema delle radici è molto presente.
Questo scadimento si può legare ad una degenerazione della società nella quale vivono i Lehman?
Sì secondo me è legato all’aumento del senso denaro. Loro finiscono per sostituire la religione delle origini con un’altra religione, quella del capitalismo. Perdono i riti ebraici dell’inizio e li sostituiscono con i riti del capitalismo più sfrenato e più micidiale.
Questo si vede bene nel ruolo che assume il tempio: esso finisce per diventare non un luogo di culto, ma un luogo di potere…
Esatto. Questa è la prova più inoppugnabile di quanto è stato appena detto. Cioè il tempio viene vissuto come un luogo in cui la posizione della famiglia all’interno dello schieramento dei membri del culto viene vissuto come un simbolo di quanto la famiglia è potente.
Nonostante l’ironia la visione che emerge nel libro dell’uomo e della società è cupissima. Sembra che non vi sia alcuna via di salvezza e che tutti siano inchiodati al loro destino. Nel romanzo alcuni Lehman, ad un certo punto, rinunciano a tutto e scappano, ma non sembra esservi salvezza nella loro fuga.
Io non sono in grado di dire che cosa ci sarà dopo la pagina che stiamo vivendo. Ricordiamoci che il fallimento dei Lehman è stato tra le cause che hanno portato all’esplosione di quella grande crisi nella quale siamo tuttora. Per cui noi viviamo ancora oggi le conseguenze di quello che è raccontato nel libro. La smaterializzazione dell’economia di cui parlavo prima poi ha avuto come conseguenza ciò in cui ci dibattiamo adesso. Che cosa ci sarà dopo non lo so. Sono arrivato a raccontare in questo libro un passaggio fondamentale che è la ragione per cui ad un certo punto un capitalismo troppo basato sull’apoteosi del denaro, e parlo del denaro fine a sé stesso, ha cominciato a mostrare il fianco ed è poi clamorosamente venuto giù. Io non so dire dopo questa dimostrazione di plateale debolezza, se vogliamo di insostenibilità di questo tipo di sistema, che cosa potrà esserci, perché io faccio lo scrittore, non l’economista o il politico. Nel libro ho raccontato lo scenario che stiamo vivendo adesso e cerco di andare alla ricerca delle cause che hanno portato al fallimento di un colosso come i Lehman ma lo faccio da narratore, non come un saggista, un economista o un politico. Io racconto una storia. Come l’umanità potrà ad un certo punto risollevarsi da una pagina come quella del crollo del capitalismo di cui Lehman sono stati il simbolo più evidente non lo so dire e non ne ho idea. Probabilmente non ne hanno idea neppure gli economisti perché stiamo un po’ procedendo lungo la costa, quando si naviga con una nave lungo la costa è perché non si tende a prendere il largo per paura che la barca non resista alla tempesta. Ecco, ancora stiamo procedendo lungo costa e quindi tutto ciò che la letteratura può fare è interrogarsi sulle cause di questo. Io l’ho fatto in modo radicale perché per andare ad interrogarmi sulle cause sono andato a scomodare Adamo ed Eva, nel senso che ho costruito una storia che parte prima della metà dell’Ottocento.
La crisi del 2008 però viene affrontata in poche pagine…
Questo l’ho fatto per una serie di ragioni. La più importante è che i protagonisti del libro erano ormai usciti di scena perché quando la banca va a morire non c’erano più i Lehman. Bobbie, l’ultimo Lehman, muore nel 1969 senza eredi. Dal 1969 in poi non c’è stato più un Lehman nell’amministrazione della banca, finiscono in mani ad altri e comincia il definitivo crollo della banca. Però era già tutto scritto, nel senso che a quel punto era chiaro che tutto ciò che si era manifestato prima esplode però non c’era il bisogno di raccontarlo perché già era evidente il modo in cui era stato costruito. Io racconto quella partita tremenda a squash, a ping pong, del greco e dell’ungherese per il possesso della banca che non sono più evidentemente Lehman e che rappresentano l’avvento di questa nuova generazione scriteriata di persone che non avendo nel DNA la storia di quella banca non potevano portarla avanti con la consapevolezza che i Lehman avevano dimostrato e che avevano portato con sé.
I personaggi del libro sognano molto e i sogni hanno spesso un valore rivelatorio. Come mai ha dato questa importanza al mondo onirico?
Questo sarà molto più chiaro quando uscirà tra pochi mesi il mio nuovo libro “L’interpretatore dei sogni” che mi ha occupato molti anni parallelamente ai Lehman nel quale ho riscritto “L’interpretazione dei sogni” di Sigmund Freud dal punto di vista romanzesco perché trovo che lì dentro ci sia tutta la storia delle paure, delle fobie, degli incubi dell’uomo moderno. Dovendo scrivere anche la storia dei Lehman non ho potuto non domandarmi che cosa potessero sognare questi personaggi. Per me come autore è sempre fondamentale farmi questa domanda: che cosa c’è di nascosto? In realtà i sogni sono la nostra parte nascosta, tutto ciò che non osi dirti, sono le domande che non osi porti, quindi per me è fondamentale chiedermi che cosa i personaggi non vogliono dirsi e quindi di conseguenza che cosa sognano di notte. Ciò che non vuoi dirti, inevitabilmente viene a visitarti quando chiudi gli occhi.  
È vero che il libro nasce prima oralmente dettandolo ad un registratore?
È verissimo ma non solo questo libro ma tutte le cose che ho scritto. Il libro è scritto in movimento, è scritto per strada, andando in bicicletta, registrato e poi sbobinato. Ciò rende la parola in movimento anch’essa, essendo figlia di un movimento fisico. Questo per me è un elemento imprescindibile ed è dimostrato anche da come il libro è scritto e impaginato: io trovo sempre che il ritmo sia essenziale. Questo non è un libro scritto in versi, infatti non c’è alcuno stralcio di metrica. È scritto in quel modo soltanto perché io pongo un’attenzione micidiale alla parola come elemento di ritmo e quindi ho scritto questo testo proprio come una specie di grande ballata ritmica dove le parole sono ognuna degna di importanza e di interesse.
Il romanzo per molti aspetti, dallo stile formulare alle ripetizioni all’uso dei versi, sembra un poema epico aggiornato alla contemporaneità. Si ritrova in questa definizione? In che modo è stato influenzato dall’epica classica?
Penso anch’io sia vicino all’epica. Molto spesso gioco in modo ironico con l’epica. Gli eroi ci sono, anche se è antieroico il modo in cui sono raccontati. C’è un modo di prendere in giro l’epica eroica.
Per quando riguarda il termine romanzo, dipende da che cosa si intende: oggi le divisioni tra i generi sono sorpassate, sono saltate tutte. Pensiamo al cinema. Nel cinema siamo addirittura arrivati al punto in cui un documentario è entrato a pieno titolo tra il cinema non documentario tanto che pochi anni fa, alla mostra del cinema di Venezia, il miglior film premiato è stato un documentario, “Sacro Gra”.  Oppure quando uscì il libro “Gomorra”, ci fu un grande dibattito per stabilire che cosa fosse. È un saggio o è un racconto? È un romanzo o un libro di giornalismo? Io trovo che la forza straordinaria di quel libro e il tentativo del mio sia proprio di non stare in nessun genere. Addirittura nel mio libro è presente il fumetto. Ho ho voluto andare oltre ogni forma di genere, perché i generi oggi sono completamente saltati. Basti pensare che le nuove generazioni ascoltano la musica rap che in molti casi è scritta in metrica e in rima. Che cosa vuol dire? Quella è poesia? No, non è poesia, è semplicemente comunicazione. Oggi in una società in cui tutti scrivono, grazie anche ai social, post, tweet è cambiato completamente e inevitabilmente il modo di scrivere.
La storia dei Lehman è nata inizialmente come testo teatrale (“La trilogia dei Lehman”) o è nato prima il romanzo?  Oltre alla struttura, quali sono le principali differenze tra le due redazioni?
“Lehman trilogy”, il testo teatrale, è la versione tratta da questo libro. Non è venuto prima il testo teatrale e poi il libro. Il libro è quello che io scrissi, poi siccome uno spettacolo teatrale non poteva durare dodici ore ho dovuto ridurlo in una dimensione più controllabile. Il libro viene prima anche se è uscito dopo. Nella versione teatrale mancano molti personaggi, perché chiaramente un’opera teatrale deve fare i conti con il pubblico, non puoi tenerlo dodici ore in teatro. Nella parte teatrale, per ovvie ragioni, ho dovuto rinunciare ad alcune cose. È solo questa la differenza. Il testo teatrale è meno della metà del romanzo. Dal punto di vista quantitativo è completamente un’altra cosa.


Stefano Massini scrittore, drammaturgo, sceneggiatore, è consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano/Teatro d’Europa. È volto noto televisivo per i suoi racconti nella trasmissione Piazzapulita su La7. Collabora con «la Repubblica». È lo scrittore italiano più rappresentato sui palcoscenici internazionali; ha vinto sette premi della critica tra Francia, Italia, Germania e Spagna; i suoi testi sono stati tradotti in 15 lingue. Il suo “Lehman Trilogy”, ultima regia teatrale di Luca Ronconi, è stato messo in scena da Sam Mendes per il National Theatre di Londra. Tra i suoi ultimi libri “Qualcosa sui Lehman” (2016), “L’interpretatore dei sogni” (2017), “Dizionario inesistente” (2018) pubblicati da Mondadori; per il Mulino «Lavoro» (2016) e “55 giorni. L'Italia senza Moro. Volti, immagini, storie da un paese in bilico” (2018).

15 luglio 2019

Milo De Angelis "Tutte le poesie 1969-2015" - "La parola data".


Questa recensione riguardante due libri di Milo De Angelis, che considero uno dei maggiori poeti contemporanei, non solo italiani, è uscita sul Giornale di Vicenza il 31 dicembre 2017.

di Fabio Giaretta

“Somiglianze”, il primo libro di Milo De Angelis, esce nel 1976. Il poeta milanese ha solo 25 anni ma quella raccolta colpisce subito per la sua intensità e originalità, tanto da diventare un modello per le generazioni successive. Sono passati circa quarant’anni da quel folgorante esordio e nel frattempo De Angelis ha pubblicato altre sette raccolte, l’ultima “Incontri e agguati” nel 2015, che lo hanno reso uno dei protagonisti indiscussi della poesia contemporanea. Ne sono testimonianza due libri che attraversano, in modo diverso, il suo percorso poetico: il primo, intitolato “Tutte le poesie 1969-2015” (Mondadori, pagg. 442), comprende tutte le raccolte finora pubblicate, più una sezione di inediti giovanili e un’autoriflessione sulla poesia; il secondo, “La parola data. Interviste 2008-2016” (Mimesis, pagg. 176), raccoglie 17 interviste ed un dvd con un video dal titolo “Sulla punta di una matita”, che permettono di capire meglio il suo pensiero e la sua produzione poetica.

Dalle interviste emerge l’immagine di un uomo il cui rapporto con la poesia è sempre stato assoluto e totalizzante. Per lui la poesia è una via privilegiata ed esclusiva per pensare il mondo. Non a caso De Angelis afferma di non riuscire a concepire nulla che preceda la parola. “L’immediato stesso è una parola”.
Leggendo le varie raccolte, risulta evidente il ricorrere ossessivo di pochi temi come la giovinezza, la morte, l’angoscia, l’amore, il gesto atletico, il dialogo con le ombre, la città, che in genere coincide con la periferia milanese, senza che questo faccia mai pensare ad una poesia ripetitiva e monotona. De Angelis stesso si definisce un poeta di lago, concentrico, che ritorna costantemente sugli stessi nuclei tematici.
Quanto allo stile, si nota un’intima coerenza che attraversa tutta la sua opera, anche se negli ultimi libri si fa strada una maggiore apertura. Innanzitutto, leggere le poesie di De Angelis significa fare i conti con una parola che proviene da luoghi sepolti e profondissimi e che per giungere alla luce ha dovuto compiere un lungo cammino nel sangue, pieno di ostacoli e sbarramenti; questo percorso così accidentato imprime una potenza e una densità straordinarie ai suoi versi. La sua è sempre stata una scrittura intimamente tragica, trafitta, lacerata, ellittica, che procede per strappi, per fotogrammi, per frammenti legati tra loro da vertiginosi salti logici che non sono però mai arbitrari. Nello stesso tempo colpisce il bisogno di esattezza e di precisione che dà ai suoi versi un rigore allucinato ed insonne. Come scrive Stefano Verdino nella postfazione alla raccolta di tutte le poesie, il grande fascino dei suoi testi sta nella “sfasatura tra la nitidezza del dettaglio e l’apertura visionaria”.
Per molto tempo l’opera di De Angelis è stata collocata in modo sbrigativo ed errato in una linea orfica o neo-orfica, soprattutto a causa dell’oscurità di molti suoi versi. In realtà la sua poesia rifiuta qualsiasi esoterismo e rimane sempre ancorata ad un irrinunciabile qui, ad un vissuto sanguinante e concreto. Questo non significa che essa non abbia un altissimo valore conoscitivo. Come dice lo stesso De Angelis, infatti, essa rappresenta una forma di conoscenza legata allo svelamento, che consente al nostro sapere di andare oltre sé stesso, “in quanto rivela qualcosa che già c’era prima di noi ma che noi possiamo vedere solo attraverso una parola nuova, solo attraverso l’invenzione della parola”.

Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano, dove insegna in un carcere di massima sicurezza. Ha pubblicato Somiglianze (1976); Millimetri (1983); Terra del viso (1985); Distante un padre (1989); Biografia sommaria (1999); Tema dell’addio (2005); Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010); Incontri e agguati (2015). Ha scritto il racconto La corsa dei mantelli (1979, 2011) e un volume di saggi (Poesia e destino, 1982). Ha tradotto dal francese e dalle lingue classiche

14 luglio 2019

Una coraggiosa piccola casa editrice


L'articolo che segue è uscito sul Giornale di Vicenza del 29 giugno 2019 ed è dedicato alla coraggiosa piccola casa editrice "Via del Vento" diretta con entusiasmo e passione da Fabrizio Zollo. 

di Fabio Giaretta

A Pistoia, a pochi passi dalla Basilica della Madonna dell'Umiltà, c’è una via dove il vento soffia sempre, anche nei momenti più torridi dell’anno. Non a caso questa strada, che oggi porta il nome di Via Vitoni, fino alla fine dell’Ottocento si chiamava Via del Vento. Qui hanno vissuto e trascorso la loro giovinezza tre importanti scrittori pistoiesi come Gianna Manzini, Piero Bigongiari e Sergio Civinini e qui, al numero civico 14, è nata nel 1991, per iniziativa dell’artista e appassionato di letteratura Fabrizio Zollo, la casa editrice Via del Vento. Il suo scopo è quello di pubblicare piccoli capolavori di narrativa e di poesia, inediti e rari, di autori del Novecento, attraverso un rigoroso e appassionato lavoro di selezione, ricerca bibliografica, collazione dei testi, traduzione e analisi critica. La proposta editoriale si articola in due collane, “I quaderni di Via del Vento” e “Ocra gialla”. A queste vanno aggiunte “Acquamarina”, dedicata a liriche di grandi poeti stranieri, e “Le streghe”, riservata a letterati e artisti pistoiesi, cessate entrambe da alcuni anni.

«Parto quasi sempre - ci ha raccontato Zollo - da un ventaglio di autori che sono di mio personale interesse. Il punto fondamentale è capire se esistono testi inediti di un determinato autore. Il processo di ricerca è molto lungo e avviene attraverso il reperimento dell'opera omnia dello scrittore in questione e la collazione di tutte le sue opere già uscite in Italia, per vedere se esiste qualcosa che è “sfuggito” ai grandi editori». I volumetti finora pubblicati da questa coraggiosa casa editrice, che mette al primo posto la qualità e non la commerciabilità dei suoi piccoli libri, e che si è fatta conoscere anche a livello nazionale, non solo negli ambienti letterari di nicchia, sono in tutto 228. Tra questi vi sono moltissimi testi di straordinario valore, prima mai dati alle stampe in Italia, come “Sedute spiritiche” di Thomas Mann, “L'incantatore” di Joseph Roth, “Narra un soldato” di Robert Musil, “La corrente” di Ernest Hemingway, “Le onde” di Louis-Ferdinand Celine. Tra i volumetti freschi di stampa (ne escono sei ogni anno, tre per ciascuna delle due collane) troviamo “Il ritorno e altre prose” dello scrittore americano Thomas Wolfe, recentemente riscoperto grazie al film “Genius”, e “I pescatori di perle e due prose inedite” di Beppe Salvia, notevole poeta italiano morto tragicamente a trent’anni nel 1985. Il sito ufficiale è www.viadelvento.it.

Mai più sola nel bosco: Intervista a Simona Vinci


Pubblico l'intervista integrale a Simona Vinci che ho fatto qualche mese fa in occasione del bel festival letterario "Parole a confine". Una versione un po' più breve è uscita ne "Il giornale di Vicenza" il 10 aprile 2019.

di Fabio Giaretta

Quante sono le paure che possono colpirci? Fare un catalogo esaustivo probabilmente è impossibile. Certo è che la paura è un’emozione primaria fondamentale che ha aiutato in modo decisivo l’essere umano ad evolversi. Essa però può anche trasformarsi in un demone che ti mangia l’anima. Lo sa bene Simona Vinci che non a caso, nei suoi ultimi tre libri, ha affrontato questo tema indagandolo con estrema lucidità. Infatti, sia nell’intenso romanzo “La prima verità”, dedicato alla malattia psichica e vincitore del Premio Campiello nel 2017, sia nei suoi due ultimi libri, “Parla, mia paura”, (Einaudi, 2017), e “Mai più sola nel bosco”, (Marsilio, 2019), la Vinci fa i conti con i mostri che abitano dentro e fuori di noi. In “Parla mia paura” la scrittrice offre un disarmante resoconto sulla depressione, un male oscuro che per anni l’ha divorata, mentre in “Mai più sola nel bosco” riflette su sé stessa e sul mondo attraverso uno dei libri che l’ha segnata di più, le fiabe dei fratelli Grimm.

Lei racconta che nella sua prima infanzia non ha conosciuto la paura. Poi molti anni dopo essa si è presa tutto lo spazio che poteva. Quali ragioni profonde l’hanno spinta a scrivere “Parla, mia paura”? In che modo la parola, la scrittura, l’immaginazione l’hanno salvata dal precipizio?
La parola, la scrittura, l’immaginazione sono uno spazio altro, ma molto vicino, adiacente e anzi sovrapposto a quello “reale”, quotidiano, dove potersi esercitare alla comprensione di sé e del mondo, una specie di palestra dello spirito e del pensiero. Non certo vie di fuga. “Parla, mia paura” è nato da una richiesta dell’editore, all’inizio, non ne ero affatto convinta, ho provato a pensare come avrei potuto declinare delle esperienze personali non poi così estreme e neanche lontanamente paradigmatiche e farne qualcosa che potesse in qualche modo essere utile ad altre e altri, sono partita da me, per poi uscire da me e guardarmi attorno per cercare di capire se questa ‘paura’, la mia, e queste tante ‘paure’ di altri, che paralizzano il nostro tempo e ci irrigidiscono su posizioni di chiusura, isolamento e spesso violenza, potesse essere raccontata, compresa e come si potesse provare ad uscirne.
Uno dei capitoli più toccanti e strazianti è quello che lei dedica alla sua maternità e alla nascita di suo figlio. Cosa ha rappresentato questo evento per lei?
Arrendermi all’inevitabile, confrontarmi ogni giorno, in ogni istante con un altro che non sono io, che da me dipende e che alternativamente a me si appoggia o da me si stacca, per trovare il suo equilibrio. Da una maternità non si torna indietro, l’altro non è più qualcuno che puoi anche sfuggire, ti ci devi confrontare per forza. Con i figli si impara la pazienza, il compromesso, il farsi da parte per ascoltare le ragioni profonde di un altro essere umano che non è detto ti somigli e neanche ti piaccia, pure se lo ami; tutte cose che a volte, prima di questa assunzione di responsabilità totale, possiamo anche trovare il modo di eludere.
Citando Pierre Levy, scrive: “Rinuncia a tutto. Non avrai più paura di niente”. Perché questa frase ha rappresentato per lei un punto di svolta?
Perché smonta la paura. Ogni paura ‘astratta’ è una prigione della mente, così come lo è ogni idea granitica su ciò che siamo, su ciò che sono gli altri, su ciò in cui crediamo di credere e su cui ci incaponiamo: tutti chiavistelli che chiudi tu stesso dal di dentro e che ti intrappolano. La vita può cambiare da un momento all’altro indipendentemente da noi e questo è al tempo stesso spaventoso e pacificante. Meglio imparare a usare la seconda prospettiva. 
Se volessimo fare un parallelo tra i suoi due ultimi libri si potrebbe dire che il desiderio è il motore che muove i personaggi di tutte le fiabe mentre la depressione è uno stato di assenza del desiderio…
Se pensiamo all’assenza di desideri della quale parla il Buddhismo, ci viene da pensare che sia un bene, per lo spirito, non desiderare nulla, ma a ragionarci è cosa bene diversa non provare attaccamenti troppo forti o lasciarsi guidare dalla brama di ottenere qualcosa di materiale o immateriale e non provare alcun desiderio. Il desiderio è vitalità, la capacità di godere del bene che c’è e immaginare, fantasticare sul bene che verrà, e senza questa vitalità, che è possibile coltivare anche nelle cose più piccole e apparentemente futili, la vita può diventare insopportabile. Uno stato depressivo ti può portare a non provare più alcun tipo di interesse per la vita. Non è un bel vivere, anzi, non è proprio vivere.
Leggendo “Mai più sola nel bosco” si percepisce un rapporto quasi simbiotico tra lei e le “Le fiabe” dei Grimm, tanto che può usarlo anche per parlare della sua vita. Che cosa ha rappresentato per lei questo testo, perché ci è così legata e come l’ha influenzata?
È stato da subito un breviario per affrontare le paure e gli interrogativi spaventosi che il mondo, le persone e gli eventi inevitabilmente ti sottopongono. Una modalità, quella fiabesca, per leggere gli accadimenti e dar loro un senso. Non so più dire se quella modalità mi apparteneva già, da sempre, per indole e dunque per questo ho provato tanta attrazione per queste fiabe, oppure viceversa se non siano state queste fiabe a modellarmi. 
Queste fiabe oggi sono considerate troppo cupe e ai bambini si preferisce leggere storie più edulcorate. Se però non attraversiamo fino in fondo “il bosco oscuro delle nostre paure” come possiamo crescere?
Non possiamo, è per questo che le fiabe continuano ad esercitare un fascino potente sui bambini e anche su moltissimi adulti.
La sua visione della realtà rimane costantemente aperta a quelle che sono le “cuciture segrete tra mondi che da minime slabbrature fanno intravedere dimensioni altre”. Da dove nasce questa sua forte propensione verso l’oltre e l’invisibile?
Non mi accontento delle spiegazioni facili, forse? Mi piace poter immaginare molte soluzioni possibili alla stessa domanda.
Il suo ultimo libro si intitola “Mai più sola nel bosco”. Un chiaro riferimento a Cappuccetto Rosso ma non solo. Fuor di metafora, chi o che cosa può accompagnarci nel bosco o come lo dobbiamo attraversare per non sentirci più soli?
Essere completamente soli è impossibile, c’è sempre un altro, un altro/altra dai quali discendiamo, un altro/altra che incontriamo o incontreremo, un altro o altra che ci ha parlato, sostenuto, compreso e la cui voce resta dentro di noi per sempre, noi stessi non siamo soltanto uno o una, siamo tanti, c’è la bambina spaventata ma c’è anche la bambina ribelle e coraggiosa! E poi, anche nel bosco più oscuro e spaventoso, ci sono creature, se non umane, animali e vegetali. Tutto è legato a tutto. Persino i tempi passato, presente e futuro possono essere lo stesso tempo.




"L'esercizio ipsilon" di Stefano Strazzabosco

Pubblico la recensione, un po' ampliata rispetto a quella uscita sul Giornale di Vicenza il 18 giugno 2019, alla raccolta  "L'Esercizio Ipsilon" di Stefano Strazabosco.


“L’esercizio ipsilon” (Ronzani Editore, pagg. 36), la nuova silloge poetica di Stefano Strazzabosco, conferma in modo evidente l’originalità e la piena maturità artistica del poeta vicentino. Il dato di partenza è lo sdegno nei confronti di una realtà che appare sempre più degradata, “cotta e poi / mangiata virtualmente aumentata”, e che l’autore riesce a rendere con immagini vivide e concrete e nello stesso tempo allucinate e visionarie. Emerge così un mondo in fluida metamorfosi, che ha rimosso “l’emergenza / con una certa urgenza”, in cui ogni logica è sovvertita perché un caos imbecille e assurdo ha travolto tutto. Quel niente plastificato e mercificato che Strazzabosco denunciava nell’intenso “P - Planh per Pier Paolo Pasolini” sembra avere obnubilato del tutto le coscienze, teste mozzate continuano a guardare le vetrine rotolando, una “cenere bianca” ha coperto gli occhi. Nel libro si apre una divaricazione tra una generica terza persona plurale, totalmente omologata e alienata («Attendono istruzioni che verranno / impartite per tempo. Qualche volta / l’orologio si ferma, sulle sneaker / Hogan luccicano lustrini neri / e gli esuli pensieri / ritornano all’ovile sculettando») e un “tu” a cui il poeta si rivolge fin dalla prima poesia, invitandolo, in modo perentorio, a prendere una posizione, a dissociarsi dalla corsa verso il vuoto: «Vogliono il baratro, galoppano / cavalli e cavalieri. Tu, / cosa vuoi». In fondo, il misterioso esercizio ipsilon del titolo potrebbe alludere ad un bivio (la parte superiore della “Y”, a livello grafico, richiama una biforcazione) e la necessità inderogabile di una scelta. Questa profonda carica civile ed etica convive con un amaro e risentito disincanto che permea i venti testi che compongono la raccolta, ma più in generale tutta l’opera del poeta, e che si manifesta soprattutto attraverso l’uso insistito dell’ironia con valore demistificatorio. Ad esempio la possibilità di un varco si riduce nella poesia “Se” a un “altrove fotoshoppato”. Qui l’uso ironico dell’attributo trasforma, come nota con acume Paolo Lanaro nella prefazione, la dimensione metafisica in un bluff filosofico. Ma l’ironia è dispiegata a piene mani anche per corrodere i luoghi comuni e le frasi fatte, scombinando la nostra percezione. Emblematici questi versi: «Si crocifigga / l’animale mondo in uomovisione», invece di “si crocifigga l’animale uomo in mondovisione”, che lanciano una critica al nostro funesto e sciagurato antropocentrismo, che ha portato per lo più calamità e guasti. Questa visione sconcertata sull’animale uomo appare ancora più evidente nella poesia “Cenere bianca”: «Dormono tutti qui di notte e stanno / col fucile puntato alla tempia dei cani. / Sulle remote nuvole si accendono / fuochi di cartilagini, arresti, / certi morti. Qualche volta si toglie / la pelle all’indiziato, / gli si cavano gli occhi. Si dorme / col pigiama di orsetti in questa bella / città: quale linea / del bus ha coperto i tuoi occhi / della cenere bianca, questa notte o l’altra». Qui dopo una serie di immagini di violenza e ferocia si arriva al pigiama di orsetti che si indossa per andare a dormire in questa bella città, rimarcando, in modo quasi grottesco, la natura bipolare dell’essere umano.
Ciò che rende ancora più suggestiva la poesia di Strazzabosco è lo stile fortemente musicale, ricco di rime e di raffinate tessiture foniche, che anziché stemperare la critica all’assurdità e alle incongruenze del nostro tempo, ne accentua l’incisività.

Stefano Strazzabosco (Vicenza, 1964), dopo aver insegnato Lettere alle scuole superiori, ora vive tra la sua città natale e Città del Messico, dove lavora come professore di Letteratura italiana a contratto presso la UNAM (Universidad Nacional Autónoma de México), l'Istituto Italiano di Cultura e altre istituzioni. Ha pubblicato saggi, traduzioni, il monologo teatrale TinaMasque su Tina Modotti  (2007 e 2016) e le raccolte di poesia Racconto (1995), Dímmene tante (2003), Blister (2009), 66 (2013), P - Planh per Pier Paolo Pasolini (con fotografe di Graciela Iturbide e scritti di Michele Presutto e Juan Gelman, 2014), TT ZZZZZ - Cantos de las hormigas  (con disegni di Francisco Soto, 2015), Dimmi  (2015), Poemas de bolsillo  (2016), Estar  (2016), Alba (con una prefazione di Marco Munaro, 2018).