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6 luglio 2010

La forza scardinatrice del "Breviario di novembre" di Alessandra Conte


"Breviario di novembre" (Raffaelli Editore, 56 pp., 12 euro) della vicentina Alessandra Conte è un’opera prima che spicca per compiutezza e per forza espressiva. Non a caso questa interessante raccolta poetica si è aggiudicata il Premio Guido Gozzano 2009.
Il breviario, nella liturgia cattolica, è un libro contenente l’ufficio divino che gli ecclesiastici devono recitare in vari momenti del giorno. Anche le poesie della Conte possono essere considerate delle preghiere, ma di carattere molto particolare. Esse, come scrive Stefano Guglielmin nella prefazione, sono insieme “invocazione pietosa e delirio blasfemo, canto sacro e bestemmia”. I toni possono oscillare da una rassicurante e avvolgente dolcezza materna fino ad arrivare ad un vigoroso e violento furore distruttivo. Il periodo in cui viene situato il breviario, novembre, il mese dei morti, dà ai testi della raccolta una nota funebre, sopra la quale si innalza la voce orante che ci appare all’inizio della prima poesia: “La suora bambola chiama / nel suo letto di noce che sale / con le pareti che si perdono / ancora più in alto, dove i rondoni / gridano e circondano di voli / i morti, fatti di scritture / e guano seccato”. Colei che intonerà le preghiere del libro è una religiosa, una suora, una creatura vivente, ma nello stesso tempo è anche una bambola, porta quindi in sé una dimensione plastificata e inanimata. È insomma una figura che sta al confine tra vita e morte.
In questa duplicità riscontrabile in suora/bambola è presente tutto il nucleo del libro che vuole ridare vita e complessità a divinità oramai troppo imbalsamate e irrigidite. La Conte mira a scardinare l’idea stessa di religione, intesa troppo spesso come asfittico armamentario di precetti e di dogmi, che svuotano il rapporto con il sacro, esaltando il senso di colpa, la paura, la diffidenza per ciò che è terrestre e corporeo. Cielo e terra devono ricongiungersi. Suora bambola prova così a costruire una nuova teogonia, che rifiuta una visione maschile e autoritaria di Dio e che attraverso l’impetuosa e rigenerante forza dell’elemento femminino cerca di superare qualsiasi alfabeto, qualsiasi categoria di modo, di genere, di tempo e di spazio, qualsiasi irrigidimento. Emblematici a tal proposito i seguenti versi: “Proteggi le mie strade / dal procedere dritto. / Donami linee armoniche / e allevia le nostre vite / dalla tentazione all’angolo retto”.
La potenza del femminino, oltre a mostrarsi nella voce recitante, si rivela soprattutto nell’immagine della Madonna che viene scaraventata giù dal piedistallo degli stereotipi. Essa ridiventa così una donna, caratterizzata non solo da una nivea ed irraggiungibile purezza, ma anche da una vischiosa dimensione terrestre che si manifesta soprattutto attraverso immagini che richiamano il rosso del sangue.
Anche Dio subisce la stessa sorte. La situazione tra divinità e fedele non è più data una volta per tutte. Dio può addirittura diventare un’entità fragile, vulnerabile, bisognosa di cure, di cui vanno rifondate le caratteristiche: “Il dio del coraggio è morto / rotolando nella scarpata. Al fondo, / è rinato senza memorie, ma / con le dita rotte la faccia livida. / o dio, tu non sai che ti è successo. / Muori davvero, dormi. / Muori che ti veglio; dormi che sorveglio”. Rotolando dalla scarpata dei luoghi comuni, Dio può ritornare a popolare ogni luogo, restando intimamente vicino all’uomo anche nei momenti più banalmente quotidiani: “Ora e talvolta tu che regni i tuoi regni soffiaci / un poco in fronte, tu che regni i tuoi regni / preparaci la cena”.

3 luglio 2010

Intervista a Yang Lian


di Fabio Giaretta


«La Cina è vicina» si sente spesso dire. E per molti aspetti, soprattutto economici, può anche essere vero. Tuttavia sembrerebbe non essere così vicina da un punto di vista culturale. La cultura cinese, infatti, appare ancora piuttosto lontana, misteriosa e vagamente esotica. Certo, aumentano coloro che la studiano e che si appassionano ad essa, ma rimangono ancora una minoranza, un ristretto gruppo di specialisti. Se dalla cultura in generale restringiamo il campo alla poesia, il numero dei suoi conoscitori si assottiglia ancora di più.
In occasione della rassegna Dire poesia 2010, ho avuto l’opportunità di incontrare e di intervistare per Il giornale di Vicenza Yang Lian, uno dei più noti e rappresentativi poeti cinesi contemporanei. L’incontro con questo poeta mi ha spalancato davanti gli occhi frammenti di un mondo che ignoravo totalmente.

Yang Lian nasce a Berna, in Svizzera, nel 1955 (i suoi genitori erano funzionari d’ambasciata in quel paese) e ritorna in Cina con la famiglia nello stesso anno.
Prima un lungo periodo di lavoro in campagna, come la maggior parte dei giovani poeti cinesi negli anni Settanta, e poi una serie di lunghi viaggi nelle regioni periferiche della Cina, sono per lui paradossali occasioni di ricerca poetica. Dall’agosto 1979 comincia a pubblicare alcune delle sue poesie sulla rivista”Jintian” (Oggi), dopo esservi stato introdotto da Gu Cheng, conosciuto durante il movimento democratico Primavera di Pechino. Questa rivista si fa portavoce di un gruppo di autori definiti dalle autorità cinesi “menglong”, cioè poeti oscuri, vaghi, imprecisi perché la loro poesia non obbediva più alle leggi imposte dai funzionari del Partito comunista. Infatti, a partire almeno dal 1949, servire la politica era stato per decenni il compito della letteratura. Non si pubblicano poesie d’amore, né romanzi, né racconti, ma solo opere politicamente utili. Però, al termine della Rivoluzione culturale (1976) gli scrittori possono finalmente dedicarsi non più solo alle masse. Emerge così una letteratura di critica sociale: è la cosiddetta “letteratura della ferita”, a cui si affiancano altri filoni letterari come “la ricerca delle radici”, “la letteratura della riforma” e, per la poesia, “i Poeti Oscuri”. Sul piano linguistico sono indicati come oscuri perché usano una lingua personale, interiore, legata alla propria esperienza: i concetti artistico-politici come “socialismo”, “capitalismo”, “storia”, “materialismo”, eccetera, sono concetti vuoti, non vere sensazioni, per questo i Poeti Oscuri tornano a parole essenziali come “pietra, terra, luna, sole, vita, morte, dolore” eccetera. Le persone che sono passate attraverso l’esperienza della lingua di propaganda, improvvisamente trovano molto difficile capirli, capire questa lingua “reale, vera”. Tutti i Poeti Oscuri condividono la repulsione per il partito, per il controllo governativo, tuttavia Yang Lian si distingue dagli altri per l’analisi dei legami tra storia, politica e cultura.
In questi anni Yang Lian scrive i poemi Taiyang meitian dou shi xin de [Il sole è nuovo ogni giorno, 1981]; Zi bai. Gei Yuanmingyuan feixu [Confessione. Alle rovine dello Yuanmingyuan, 1981]; Norlang (dal nome di una divinità tibetana, 1983; criticato dalle autorità culturali del governo, che ostacolarono la pubblicazione delle sue opere in Cina per più di un decennio); Xizang [Tibet, 1984] e Yi (dal 1985; il titolo è la trascrizione di un pittogramma inventato dallo stesso Yang Lian), oltre a vari volumi di prose poetiche, tra cui Haibian de haizi [Il bambino in riva al mare, 1982] e Shizhe [Colui che passa, 1985].
Sul finire degli anni Ottanta, Yang Lian comincia a viaggiare per il mondo, fissando un punto di ferma collaborazione con l’Università di Auckland in Nuova Zelanda. Yang Lian e l’amico Gu Cheng restano ad Auckland dove, in occasione dei fatti di Tian’an Men del 1989, organizzano una storica lettura di protesta presso la cappella Maclauren dell’Università. Le sue dichiarazioni contro questo massacro lo costringono ad un lungo esilio in varie città: Berlino (dove riceve una fellowship come artista residente da parte della DAAD), New York (presso la fondazione Yaddo), Sidney (dove insegna Lingua e Letteratura cinese all’Università) e, dal 1994, a Londra, dove tuttora risiede.
Oltre alle opere già citate, ha pubblicato diversi altri libri di prosa e di poesia, tra cui ricordiamo Mianju yu eyu [Maschere e coccodrilli, 1989]; Wurencheng [Impersonale, 1991]; Dahai tingzhi zhichu [Dove si ferma il mare, 1992]; Tongxinyuan [Cerchi concentrici, 1997]; Naxie yi [Tutti quegli uno, 1999]; Lihegu de shi [Poesie di Lea Valley, 2001].
Le sue opere sono state tradotte in 25 lingue. In Italia, i suoi versi sono stati pubblicati da Einaudi nell'antologia Nuovi poeti cinesi (Torino 1996; a cura di C. Pozzana e A. Russo) e nel 2004 è uscita la raccolta Dove si ferma il mare (Scheiwiller - Playon, Milano; a cura di C. Pozzana).
Com’è naturale i temi della poesia di Yang Lian ruotano attorno al suo lungo girovagare ed alla condizione umana che ne deriva: l’esilio provoca riflessioni, in particolare su di sé, sulla propria collocazione umana e geografica, sulla lingua.
Qui di seguito riporto l’intervista integrale a Yang Lian (una versione molto più breve è uscita sul Giornale di Vicenza del 13 maggio 2010). Voglio ringraziare Marta Nori, insegnante di Lingua e Letteratura Cinese presso il Liceo Pigafetta di Vicenza per il suo fondamentale ruolo di interprete e per le numerose informazioni che mi ha fornito e che ho ampiamente riportato in questo cappello introduttivo.
È vero che uno degli eventi che l’ha spinta a scrivere poesie è stata la morte di sua madre?
Sì è vero. Mia madre è morta nel gennaio del 1976. Io ero già per il terzo anno nelle campagne cinesi per la rieducazione a cui erano sottoposti tutti gli intellettuali. Prima della sua morte avevo scritto qualcosa, ma era tutto un po’ romantico e semplice, non avevo mai capito che la poesia nasceva dalla parte più profonda di me. Dopo la sua morte, in me si è creata una sensazione di vuoto enorme, anche perché ero da solo e non c’era nessuno vicino con cui potermi sfogare. La poesia è diventata allora l’unico modo di esprimermi, non solo per me, ma in qualche modo anche per parlare a mia madre. Quest’ultima sensazione segretamente è sempre con me. Quindi mia madre è stata quella che ha fatto iniziare la mia carriera di poeta, però non ha mai letto niente di quello che ho scritto.
Lei è molti altri poeti cinesi siete stati accusati di praticare una poesia “menglong”, cioè una poesia oscura. Come mai vi venne data questa etichetta denigratoria?
Prima di tutto per me poesia oscura non è un nome corretto, ed è nato perché la gente voleva criticarci in quanto non riusciva a capire quello che volevamo dire, come se la poesia fosse avvolta nella nebbia. Però, dal mio punto di vista, la poesia oscura è stata il primo momento in cui abbiamo iniziato a ripulire la lingua dopo la rivoluzione culturale. Ci siamo sbarazzati di tutti quei paroloni come socialismo, comunismo, e siamo tornati un po’ alla volta alla lingua tradizionale, o alla tradizione della lingua. Abbiamo parlato di morte, di vita, di sole, di luna, di dolore, però tutto in un modo moderno, per esprimere i nostri sentimenti. Quindi in qualche modo siamo andati incontro alla lingua tradizionale per esprimere però una situazione attuale. Abbiamo espresso i nostri sentimenti nella nostra propria lingua, e con “propria” intendo la lingua individuale di ciascuno di noi, quindi molto diversa da quella lingua di propaganda che aveva caratterizzato la Cina.
Qual è il suo rapporto con la poesia cinese classica?
Io scrivo in cinese. Si tratta di una lingua che è cambiata moltissimo e credo che non ci sia nessun cinese oggi che possa dire di essere una persona cinese classica. Amo la poesia classica cinese, ma non c’è modo di copiarla. Quello che posso fare è pormi delle domande e porre delle domande anche alla lingua, le più profonde possibili. Quindi, da un punto di vista filosofico, direi che la mia poesia serve ad esprimere la situazione dell’uomo. La poesia ha a che fare con la nostra vita. Anche se scrivo questa poesia, chiamiamola moderna, gli antichi poeti classici sono sempre dietro di me e mi guardano. Quando compongo una poesia, o quando penso alla musica dietro a questa poesia, devo anche chiedermi cosa penserebbero loro. Direi che la mia poesia è come una domanda moderna per rispondere alla quale devo raccogliere elementi da ogni direzione per essere creativo.
Il verso finale della poesia “1989” dedicata al massacro di Tian’an Men recita: “questo senza dubbio è un anno perfettamente ordinario” . È uno strano verso considerando la tragicità dell’evento…
Quando accadde il massacro di piazza Tian’an Men tutti eravamo scioccati da quello che vedevamo succedere, eravamo disperati e increduli. Allora mi è sorta questa domanda: «Dov’è la nostra memoria per tutti i morti che ci sono stati prima di questo evento, tutti i morti per esempio della rivoluzione culturale?». Sembrava che fosse la prima volta che vedevamo dei morti. Se le nostre lacrime servono solo per lavarci la memoria, allora chi è che può garantire che non succeda un’altra Tian’an Men?
In Omaggio alla poesia lei scrive: "Sono un poeta / se voglio che la rosa sbocci sboccerà / la libertà tornerà". Da questi versi emerge una grande fiducia nella poesia…
Quando ho scritto questa poesia ero ancora molto giovane, quindi è un po’ romantica. Però a distanza di trent’anni trovo che la mia fede nella poesia sia diventata più profonda e più forte. Penso che questo mondo globale stia diventando una globalità di cinismo e di egoismo in cui domina l’unione del potere e dei soldi globali. Anche se la poesia non viene rifiutata da questo potere e da questi soldi, tuttavia è la poesia a rifiutare loro. La poesia è la libertà del pensiero e della parola. La poesia è il luogo in cui possiamo opporre la nostra resistenza etica. Proprio per il potere che ha la poesia, penso che alla fine riuscirà a collegare e a unire tutti quei pensatori liberi che ci sono in tutto il mondo.
Lei oggi vive a Londra. Ha mai pensato di scrivere in inglese?
Penso che la lingua abbia molto a che fare con le nostre origini. Io sono sempre stato definito un poeta in esilio. Però mi sono chiesto: «Chi è che non è in esilio quando sei una persona creativa?». Perché naturalmente c’è un significato politico, ma anche uno linguistico. Io come poeta voglio creare la mia propria lingua, quindi non c’è soltanto una lingua cinese, ma c’è un cinese di Yang Lian. Ho tre nomi con i quali chiamo me stesso. Come prima cosa mi definisco un poeta della Cina. Perché naturalmente dopo il periodo della rivoluzione culturale, la poesia parla delle difficoltà politiche di quel paese. Poi naturalmente ho lasciato la Cina e ho vagato per altre paesi ed è stato così che mi sono reso conto che sempre la poesia ha a che fare con le difficoltà della vita in generale.
Inoltre, poiché scrivo in cinese, mi definisco anche il poeta della lingua cinese, però la mia lingua cinese è diversa da quella di altri cinesi. Il mio cinese non è facile da tradurre nelle altre lingue e quindi mi definiscono il poeta che scrive in “Yanglish”, un misto di “Yang” ed “english”.
Quindi non soltanto il poeta appartiene alla sua lingua madre ma anche la lingua appartiene al poeta. È il nostro pensiero, la nostra scrittura creativa che costituiscono la vera radice della lingua. Ed è in questo senso soltanto che posso dire che la tradizione cinese è una tradizione che vive. Tutto il mio viaggiare e girovagare ha come unico significato vero quello di rendere più profonda la mia esperienza che mi serve per essere creativo. È difficile però a me piace.
In cinese non esistono i tempi verbali, il verbo non cambia mai. Lei ha sempre sfruttato questa caratteristica perché, in un certo senso, permette alla storia di essere sempre riscritta e di esistere anche al presente. Qual è per lei la distanza tra presente e passato visto che non è sempre così chiara da un punto di vista grammaticale?
Effettivamente la lingua cinese è molto speciale. Si ha la sensazione che tenda sempre per prima cosa ad afferrare il concreto e poi un po’ alla volta torna indietro e fa scoprire l’intera situazione. Per esempio in cinese se diciamo bere il verbo non cambia mai, cent’anni fa bere, oggi bere, domani bere, quindi in questo verbo così fisso, stabile, è tutto compreso: presente, passato, futuro. Per me scrivere poesia in cinese è scrivere sulla situazione. Io la vedo come una situazione che non ha tempo e quindi per fortuna posso scrivere in una lingua che non ha tempo.
Quali sono i suoi rapporti con la Cina e con gli scrittori cinesi contemporanei?
Sono tornato in Cina abbastanza spesso perché amo mio padre che ha ottantotto anni ed è anche un modo per tenere un rapporto molto stretto con il mio Paese. La Cina di per se stessa è come una poesia molto complessa. Tutti, compresi i cinesi, quando pensano alla Cina hanno immagini molto differenti e complesse nella loro mente. Sembra un paese comunista ma è anche il grande fratello della società internazionale capitalista. Non è più come ai tempi della guerra fredda con la lotta tra comunismo e capitalismo, ma è come un enorme corpo che contiene molti elementi contradditori. Continua quel processo di trasformazione tradizionale iniziato all’inizio del secolo scorso con l’inserimento di nuovi elementi, soprattutto economici. Come poeta posso dire che la Cina non è un problema solo dei cinesi. Con il suo grande potere economico ha costretto tutto il mondo a giocare stando alle sue regole. Tutti i politici occidentali quando vanno in Cina normalmente fanno due cose. Per prima cosa devono assolutamente parlare di diritti umani e democrazia. Ma appena finita questa incombenza, si siedono e parlano di contratti di lavoro. Per me scrivere una poesia e confrontarmi con questa situazione internazionale è molto importante. È doloroso per me vedere questo gioco un po’ cinico. È un po’ un incubo però può essere fonte di ispirazione. Credo che la Cina com’è adesso ponga delle domande in ogni parte del mondo: Che cos’è la politica oggi? Qual è il vero significato della letteratura oggi? Qual è il vero legame tra la vita e la letteratura, cos’è che rende la letteratura necessaria? Se riusciamo a rispondere a queste domande potremmo crescere e aiuteremmo anche la Cina a crescere.
Ho contatti molto stretti con i miei amici poeti che vivono in Cina e so che se sono dei bravi scrittori non fanno parte di associazioni. Sono nella stessa situazione in cui mi trovavo io quando ero esiliato solo che loro si sono autoesiliati stando in Cina. Però ci sono moltissimi giovani poeti, quindi i siti web in cui vengono pubblicate le loro poesie sono molto vivaci. Adesso internet e i siti web sono diventati come le pubblicazioni underground dei nostri anni Ottanta. Quindi è tutto molto vivace ma ancora pieno di domande.
Parlando della sua poesia in un questionario a cui ha risposto tra il 1992 e il 1993, lei l’ha divisa in due periodi: dalla poesia lunga a quella breve. Può spiegarci meglio questa evoluzione? Oggi come si è ulteriormente evoluta?
Di solito non separo tanto la poesia breve dalla poesia lunga perché penso che la forma specifica della poesia debba essere necessaria rispetto a quello che devo dire.
Per me il 1989 è stato uno spartiacque, prima ho scritto due libri interi composti da una serie di poesie molto lunghe e dopo ho scritto invece poesie molto brevi. Prima del 1989 volevo scavare dentro tutti i vari strati della cultura tradizionale cinese, la sua lingua, la sua classicità, la sua musicalità e anche la sua attualità, il suo modernismo, per questo i poemi di allora sono molto lunghi. Per esempio l’opera che si intitola Yi è basata su uno dei testi classici della letteratura cinese però in un modo molto moderno e contemporaneo. Come per portare i 5000 anni di storia tradizionale cinese all’interno di una poesia moderna e in una struttura contemporanea. Dopo il 1989 mi sono trovato in esilio, in particolare in paesi occidentali e io non parlavo inglese quindi il problema è stato raccontare cosa mi era successo. Per questo i poemi che seguono il 1989 sono così taglienti, precisi, netti, perché dovevo in qualche modo tagliare quelle emozioni e quei sentimenti. Nell’opera Dove si ferma il mare, fatta di molte sequenze di poesie mi sono trovato per la prima volta, dopo aver lasciato la Cina, ad utilizzare nuovamente una forma molto ampia di poesia. Per tornare a quello che dicevo, tra forma e poesia ci deve essere una necessità, cioè posso scrivere cose molto sperimentali, posso tornare alla tradizione, alla classicità ma ci deve essere un incontro tra la mia mente e la mia anima.
Lei ha affermato che “ogni carattere cinese è una trappola in cui una dopo l’altra cadono intere generazioni”. Che cosa intendeva dire?
La lingua cinese è molto flessibile, ti permette anche di giocare molto, però è anche molto insidiosa. Ad esempio Ezra Pound ha creato il filone dell’imagismo, quasi un gioco che si poteva fare con la lingua cinese e con i suoi caratteri. È diventato quasi un marchio della lingua cinese. Però se guardo a questi giochi, a questi esperimenti, li trovo molto belli in apparenza, molto stimolanti, ma appena vado in profondità mi chiedo: «qual è il motivo, qual è la necessità per cui devo fare questi giochi?». Anche l’imagismo è diventato un gioco vuoto. È un gioco che può essere facile, perché si gioca con l’immagine, con la superficialità, la cosa difficile è scendere nella profondità della poesia.
Lei ha detto: “La poesia mi costringe ad accettare la realtà”. Quale tipo di realtà?
La realtà si compone di molte contraddizioni e, anche per quanto mi riguarda, ci sono molte di queste contraddizioni con le quali io devo un po’ alla volta venire a patti. Quindi è una questione di accettare sì la realtà esterna, ma anche me stesso. Per esempio, dopo la rivoluzione culturale, dopo il massacro di Tian’an Men, la gente si chiede sempre chi ha causato questo disastro. Però se guardo dentro di me devo riconoscere che anche una parte di me forse ha contribuito a creare questo disastro, questo problema. Perché adesso chi si ricorda più della rivoluzione culturale? Anche Tian’an Men quasi è dimenticata, adesso siamo tutti presi da questa ricchezza ed opulenza e dunque, in qualche modo, siamo anche noi responsabili di avere dimenticato i morti. Adesso la Cina non solo è esplosa dal punto di vista economico, ma addirittura produce benessere per l’occidente. Quando vedo i politici cinesi che fanno affari con gli industriali occidentali e firmano contratti e scambiano soldi e producono altri soldi, eccetera, forse anche loro sono responsabili di quelle morti. Forse l’unica verità è l’impossibilità di basare tutto sull’egoismo e il cinismo internazionale. Ho questa frase che mi è venuta proprio qui in Italia: «Iniziare dall’impossibile». Penso che la poesia mi abbia insegnato a come guardare dentro di me ma anche dove iniziare, quando iniziare per uscire e per rompere qualcosa.
In Cina i suoi libri circolano tranquillamente o c’è qualche forma di censura nei suoi confronti?
Sono stato ripubblicato in Cina dopo il massacro di Tian’an Men e nuovamente nel 1999, cioè a dieci anni di distanza. I miei libri sono stati ristampati e hanno venduto anche piuttosto bene. Io lavoro sempre almeno su due livelli, quello poetico e quello politico. Due anni fa sono stato eletto come membro di un gruppo di poeti internazionali e dopo allora il mio sito web è stato bloccato dal governo. La situazione è complessa perché io posso andare di nuovo in Cina, però quando lo faccio vengo guardato molto, molto da vicino. È una situazione abbastanza tipica nella Cina di oggi, in particolare gli scrittori indipendenti sono guardati in modo molto stretto. Naturalmente non riescono a controllare tutto quello che c’è su internet, però appena qualche intellettuale indipendente mette piede in Cina, viene controllato di persona.