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14 luglio 2019

Mai più sola nel bosco: Intervista a Simona Vinci


Pubblico l'intervista integrale a Simona Vinci che ho fatto qualche mese fa in occasione del bel festival letterario "Parole a confine". Una versione un po' più breve è uscita ne "Il giornale di Vicenza" il 10 aprile 2019.

di Fabio Giaretta

Quante sono le paure che possono colpirci? Fare un catalogo esaustivo probabilmente è impossibile. Certo è che la paura è un’emozione primaria fondamentale che ha aiutato in modo decisivo l’essere umano ad evolversi. Essa però può anche trasformarsi in un demone che ti mangia l’anima. Lo sa bene Simona Vinci che non a caso, nei suoi ultimi tre libri, ha affrontato questo tema indagandolo con estrema lucidità. Infatti, sia nell’intenso romanzo “La prima verità”, dedicato alla malattia psichica e vincitore del Premio Campiello nel 2017, sia nei suoi due ultimi libri, “Parla, mia paura”, (Einaudi, 2017), e “Mai più sola nel bosco”, (Marsilio, 2019), la Vinci fa i conti con i mostri che abitano dentro e fuori di noi. In “Parla mia paura” la scrittrice offre un disarmante resoconto sulla depressione, un male oscuro che per anni l’ha divorata, mentre in “Mai più sola nel bosco” riflette su sé stessa e sul mondo attraverso uno dei libri che l’ha segnata di più, le fiabe dei fratelli Grimm.

Lei racconta che nella sua prima infanzia non ha conosciuto la paura. Poi molti anni dopo essa si è presa tutto lo spazio che poteva. Quali ragioni profonde l’hanno spinta a scrivere “Parla, mia paura”? In che modo la parola, la scrittura, l’immaginazione l’hanno salvata dal precipizio?
La parola, la scrittura, l’immaginazione sono uno spazio altro, ma molto vicino, adiacente e anzi sovrapposto a quello “reale”, quotidiano, dove potersi esercitare alla comprensione di sé e del mondo, una specie di palestra dello spirito e del pensiero. Non certo vie di fuga. “Parla, mia paura” è nato da una richiesta dell’editore, all’inizio, non ne ero affatto convinta, ho provato a pensare come avrei potuto declinare delle esperienze personali non poi così estreme e neanche lontanamente paradigmatiche e farne qualcosa che potesse in qualche modo essere utile ad altre e altri, sono partita da me, per poi uscire da me e guardarmi attorno per cercare di capire se questa ‘paura’, la mia, e queste tante ‘paure’ di altri, che paralizzano il nostro tempo e ci irrigidiscono su posizioni di chiusura, isolamento e spesso violenza, potesse essere raccontata, compresa e come si potesse provare ad uscirne.
Uno dei capitoli più toccanti e strazianti è quello che lei dedica alla sua maternità e alla nascita di suo figlio. Cosa ha rappresentato questo evento per lei?
Arrendermi all’inevitabile, confrontarmi ogni giorno, in ogni istante con un altro che non sono io, che da me dipende e che alternativamente a me si appoggia o da me si stacca, per trovare il suo equilibrio. Da una maternità non si torna indietro, l’altro non è più qualcuno che puoi anche sfuggire, ti ci devi confrontare per forza. Con i figli si impara la pazienza, il compromesso, il farsi da parte per ascoltare le ragioni profonde di un altro essere umano che non è detto ti somigli e neanche ti piaccia, pure se lo ami; tutte cose che a volte, prima di questa assunzione di responsabilità totale, possiamo anche trovare il modo di eludere.
Citando Pierre Levy, scrive: “Rinuncia a tutto. Non avrai più paura di niente”. Perché questa frase ha rappresentato per lei un punto di svolta?
Perché smonta la paura. Ogni paura ‘astratta’ è una prigione della mente, così come lo è ogni idea granitica su ciò che siamo, su ciò che sono gli altri, su ciò in cui crediamo di credere e su cui ci incaponiamo: tutti chiavistelli che chiudi tu stesso dal di dentro e che ti intrappolano. La vita può cambiare da un momento all’altro indipendentemente da noi e questo è al tempo stesso spaventoso e pacificante. Meglio imparare a usare la seconda prospettiva. 
Se volessimo fare un parallelo tra i suoi due ultimi libri si potrebbe dire che il desiderio è il motore che muove i personaggi di tutte le fiabe mentre la depressione è uno stato di assenza del desiderio…
Se pensiamo all’assenza di desideri della quale parla il Buddhismo, ci viene da pensare che sia un bene, per lo spirito, non desiderare nulla, ma a ragionarci è cosa bene diversa non provare attaccamenti troppo forti o lasciarsi guidare dalla brama di ottenere qualcosa di materiale o immateriale e non provare alcun desiderio. Il desiderio è vitalità, la capacità di godere del bene che c’è e immaginare, fantasticare sul bene che verrà, e senza questa vitalità, che è possibile coltivare anche nelle cose più piccole e apparentemente futili, la vita può diventare insopportabile. Uno stato depressivo ti può portare a non provare più alcun tipo di interesse per la vita. Non è un bel vivere, anzi, non è proprio vivere.
Leggendo “Mai più sola nel bosco” si percepisce un rapporto quasi simbiotico tra lei e le “Le fiabe” dei Grimm, tanto che può usarlo anche per parlare della sua vita. Che cosa ha rappresentato per lei questo testo, perché ci è così legata e come l’ha influenzata?
È stato da subito un breviario per affrontare le paure e gli interrogativi spaventosi che il mondo, le persone e gli eventi inevitabilmente ti sottopongono. Una modalità, quella fiabesca, per leggere gli accadimenti e dar loro un senso. Non so più dire se quella modalità mi apparteneva già, da sempre, per indole e dunque per questo ho provato tanta attrazione per queste fiabe, oppure viceversa se non siano state queste fiabe a modellarmi. 
Queste fiabe oggi sono considerate troppo cupe e ai bambini si preferisce leggere storie più edulcorate. Se però non attraversiamo fino in fondo “il bosco oscuro delle nostre paure” come possiamo crescere?
Non possiamo, è per questo che le fiabe continuano ad esercitare un fascino potente sui bambini e anche su moltissimi adulti.
La sua visione della realtà rimane costantemente aperta a quelle che sono le “cuciture segrete tra mondi che da minime slabbrature fanno intravedere dimensioni altre”. Da dove nasce questa sua forte propensione verso l’oltre e l’invisibile?
Non mi accontento delle spiegazioni facili, forse? Mi piace poter immaginare molte soluzioni possibili alla stessa domanda.
Il suo ultimo libro si intitola “Mai più sola nel bosco”. Un chiaro riferimento a Cappuccetto Rosso ma non solo. Fuor di metafora, chi o che cosa può accompagnarci nel bosco o come lo dobbiamo attraversare per non sentirci più soli?
Essere completamente soli è impossibile, c’è sempre un altro, un altro/altra dai quali discendiamo, un altro/altra che incontriamo o incontreremo, un altro o altra che ci ha parlato, sostenuto, compreso e la cui voce resta dentro di noi per sempre, noi stessi non siamo soltanto uno o una, siamo tanti, c’è la bambina spaventata ma c’è anche la bambina ribelle e coraggiosa! E poi, anche nel bosco più oscuro e spaventoso, ci sono creature, se non umane, animali e vegetali. Tutto è legato a tutto. Persino i tempi passato, presente e futuro possono essere lo stesso tempo.




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