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24 agosto 2010

C'è bufera dentro la madre di Stefano Guglielmin

Quella che segue è la recensione integrale (uscita in forma leggermente ridotta sul Giornale di Vicenza del 19 agosto 2010) che ho scritto sull'ultima raccolta poetica di Stefano Guglielmin.

di Fabio Giaretta

Tra i non pochi poeti, o sedicenti tali, attivi oggi nel Nord-Est, lo scledense Stefano Guglielmin è senz’altro tra i più dotati e consapevoli. Ne è un’ulteriore conferma la sua nuova raccolta poetica, C’è bufera dentro la madre (L’arcolaio, pagg. 56, euro 11) nella quale l’autore fa i conti con il nostro presente. La bufera del titolo allude infatti alla crisi economica e alla crisi di valori che si è scatenata all’interno di quella che Guglielmin chiama "la madre". Questo termine fa riferimento all’organismo nel quale siamo immersi, al grembo, oramai malato, che ci tiene in vita, che ci determina e dal quale non possiamo uscire. Scopo dell’autore diventa quindi quello, come scrive Cristina Annino nella prefazione, di "indagare secondo ragione la vita vera quando collassa". Un’indagine pietosa e crudele nello stesso tempo, che si articola in 39 brevi ma densissimi testi, nei quali il poeta descrive la realtà che ci circonda procedendo per schegge, per frammenti, utilizzando immagini che, grazie alla loro originalità e forza polisemica, evitano la trappola del luogo comune e della banalità. I versi, per aderire al mondo degradato che viene descritto, si fanno asciutti e disadorni. Come per Montale, esplicitamente presente tra i modelli della raccolta fin dal titolo, anche per Guglielmin il poeta, pur non rinunciando al suo compito di denuncia del mondo mercificato e massificato, è in grado offrire solo "qualche storta sillaba e secca" che non può, e non vuole, mostrare rassicuranti soluzioni.
Nel libro, la bufera viene vista attraverso gli occhi di una terza persona dai contorni sfumati ma che può essere identificata, ad un primo livello, con il padrone di una fabbrica, un "unto del bendidìo". Egli appare scisso tra due dimensioni, una diurna, predominante, e una notturna. Di giorno segue in modo implacabile la logica del profitto ed è animato da un delirio di controllo assoluto che lo porta a dire "io sono il signore dio mio / forcina del mondo". Egli è spinto da un senso di superiorità virile, ben rappresentata dall’immagine fallica del "ramo", che spesso tocca attraverso le tasche come se volesse ricordare continuamente a se stesso il suo potere. È un Caino nato da parto gemellare che "fonda regole e città, marca rioni. / vorrebbe giardini intorno, ma fa crateri, e quando apre, strappa".
Di notte, invece, diventa più vulnerabile, "prima di dormire, prega abele / di non lasciarlo". Quando cala l’oscurità si insinua infatti il tarlo del dubbio e si aprono spiragli di larvale tormento e di malinconica consapevolezza in cui la bufera pare acquietarsi. Egli percepisce allora che tutto quello che ha costruito poggia su un "solido nulla dove la vita trottola e canticchia". Quando pensa alla morte tutta la sua vita vacilla: "teme la morte perché non viene a mezzadria. dopocena, poi / lascia i vermi sul piatto e non dà il resto. lui preferisce / il negozio: dare e avere, comprare. ma la morte è una bocca / impagabile, una ciste che va in fregola appena la sfiora. / quando la tocca, tutta la madre trema". Sono però solo brevi momenti, destinati ad evaporare con l’alba.
Ad un livello di lettura più profonda questo padrone diventa però una sorta di io plurale che ci ingloba tutti, in quanto tutti noi siamo figli del sistema occidentale, della sua logica e delle sue storture. Anche noi vorremmo intorno giardini, ma, piuttosto di rinunciare al nostro stile di vita, continuiamo a preferire i crateri. Se spalancassimo gli occhi sul solido nulla che ci circonda, anche noi ci renderemmo conto che "il crepo è totale, che smangia i bordi / anche al nido". Parafrasando la poesia 34, se inorridissimo davvero, se insabbiassimo il perno che ci lega alla pancia del denaro, se riuscissimo a scavare dentro “la madre” una pozza di vita vera, forse, la bufera, di cui anche noi siamo diretti responsabili, un po’ si quieterebbe.

6 luglio 2010

La forza scardinatrice del "Breviario di novembre" di Alessandra Conte


"Breviario di novembre" (Raffaelli Editore, 56 pp., 12 euro) della vicentina Alessandra Conte è un’opera prima che spicca per compiutezza e per forza espressiva. Non a caso questa interessante raccolta poetica si è aggiudicata il Premio Guido Gozzano 2009.
Il breviario, nella liturgia cattolica, è un libro contenente l’ufficio divino che gli ecclesiastici devono recitare in vari momenti del giorno. Anche le poesie della Conte possono essere considerate delle preghiere, ma di carattere molto particolare. Esse, come scrive Stefano Guglielmin nella prefazione, sono insieme “invocazione pietosa e delirio blasfemo, canto sacro e bestemmia”. I toni possono oscillare da una rassicurante e avvolgente dolcezza materna fino ad arrivare ad un vigoroso e violento furore distruttivo. Il periodo in cui viene situato il breviario, novembre, il mese dei morti, dà ai testi della raccolta una nota funebre, sopra la quale si innalza la voce orante che ci appare all’inizio della prima poesia: “La suora bambola chiama / nel suo letto di noce che sale / con le pareti che si perdono / ancora più in alto, dove i rondoni / gridano e circondano di voli / i morti, fatti di scritture / e guano seccato”. Colei che intonerà le preghiere del libro è una religiosa, una suora, una creatura vivente, ma nello stesso tempo è anche una bambola, porta quindi in sé una dimensione plastificata e inanimata. È insomma una figura che sta al confine tra vita e morte.
In questa duplicità riscontrabile in suora/bambola è presente tutto il nucleo del libro che vuole ridare vita e complessità a divinità oramai troppo imbalsamate e irrigidite. La Conte mira a scardinare l’idea stessa di religione, intesa troppo spesso come asfittico armamentario di precetti e di dogmi, che svuotano il rapporto con il sacro, esaltando il senso di colpa, la paura, la diffidenza per ciò che è terrestre e corporeo. Cielo e terra devono ricongiungersi. Suora bambola prova così a costruire una nuova teogonia, che rifiuta una visione maschile e autoritaria di Dio e che attraverso l’impetuosa e rigenerante forza dell’elemento femminino cerca di superare qualsiasi alfabeto, qualsiasi categoria di modo, di genere, di tempo e di spazio, qualsiasi irrigidimento. Emblematici a tal proposito i seguenti versi: “Proteggi le mie strade / dal procedere dritto. / Donami linee armoniche / e allevia le nostre vite / dalla tentazione all’angolo retto”.
La potenza del femminino, oltre a mostrarsi nella voce recitante, si rivela soprattutto nell’immagine della Madonna che viene scaraventata giù dal piedistallo degli stereotipi. Essa ridiventa così una donna, caratterizzata non solo da una nivea ed irraggiungibile purezza, ma anche da una vischiosa dimensione terrestre che si manifesta soprattutto attraverso immagini che richiamano il rosso del sangue.
Anche Dio subisce la stessa sorte. La situazione tra divinità e fedele non è più data una volta per tutte. Dio può addirittura diventare un’entità fragile, vulnerabile, bisognosa di cure, di cui vanno rifondate le caratteristiche: “Il dio del coraggio è morto / rotolando nella scarpata. Al fondo, / è rinato senza memorie, ma / con le dita rotte la faccia livida. / o dio, tu non sai che ti è successo. / Muori davvero, dormi. / Muori che ti veglio; dormi che sorveglio”. Rotolando dalla scarpata dei luoghi comuni, Dio può ritornare a popolare ogni luogo, restando intimamente vicino all’uomo anche nei momenti più banalmente quotidiani: “Ora e talvolta tu che regni i tuoi regni soffiaci / un poco in fronte, tu che regni i tuoi regni / preparaci la cena”.

3 luglio 2010

Intervista a Yang Lian


di Fabio Giaretta


«La Cina è vicina» si sente spesso dire. E per molti aspetti, soprattutto economici, può anche essere vero. Tuttavia sembrerebbe non essere così vicina da un punto di vista culturale. La cultura cinese, infatti, appare ancora piuttosto lontana, misteriosa e vagamente esotica. Certo, aumentano coloro che la studiano e che si appassionano ad essa, ma rimangono ancora una minoranza, un ristretto gruppo di specialisti. Se dalla cultura in generale restringiamo il campo alla poesia, il numero dei suoi conoscitori si assottiglia ancora di più.
In occasione della rassegna Dire poesia 2010, ho avuto l’opportunità di incontrare e di intervistare per Il giornale di Vicenza Yang Lian, uno dei più noti e rappresentativi poeti cinesi contemporanei. L’incontro con questo poeta mi ha spalancato davanti gli occhi frammenti di un mondo che ignoravo totalmente.

Yang Lian nasce a Berna, in Svizzera, nel 1955 (i suoi genitori erano funzionari d’ambasciata in quel paese) e ritorna in Cina con la famiglia nello stesso anno.
Prima un lungo periodo di lavoro in campagna, come la maggior parte dei giovani poeti cinesi negli anni Settanta, e poi una serie di lunghi viaggi nelle regioni periferiche della Cina, sono per lui paradossali occasioni di ricerca poetica. Dall’agosto 1979 comincia a pubblicare alcune delle sue poesie sulla rivista”Jintian” (Oggi), dopo esservi stato introdotto da Gu Cheng, conosciuto durante il movimento democratico Primavera di Pechino. Questa rivista si fa portavoce di un gruppo di autori definiti dalle autorità cinesi “menglong”, cioè poeti oscuri, vaghi, imprecisi perché la loro poesia non obbediva più alle leggi imposte dai funzionari del Partito comunista. Infatti, a partire almeno dal 1949, servire la politica era stato per decenni il compito della letteratura. Non si pubblicano poesie d’amore, né romanzi, né racconti, ma solo opere politicamente utili. Però, al termine della Rivoluzione culturale (1976) gli scrittori possono finalmente dedicarsi non più solo alle masse. Emerge così una letteratura di critica sociale: è la cosiddetta “letteratura della ferita”, a cui si affiancano altri filoni letterari come “la ricerca delle radici”, “la letteratura della riforma” e, per la poesia, “i Poeti Oscuri”. Sul piano linguistico sono indicati come oscuri perché usano una lingua personale, interiore, legata alla propria esperienza: i concetti artistico-politici come “socialismo”, “capitalismo”, “storia”, “materialismo”, eccetera, sono concetti vuoti, non vere sensazioni, per questo i Poeti Oscuri tornano a parole essenziali come “pietra, terra, luna, sole, vita, morte, dolore” eccetera. Le persone che sono passate attraverso l’esperienza della lingua di propaganda, improvvisamente trovano molto difficile capirli, capire questa lingua “reale, vera”. Tutti i Poeti Oscuri condividono la repulsione per il partito, per il controllo governativo, tuttavia Yang Lian si distingue dagli altri per l’analisi dei legami tra storia, politica e cultura.
In questi anni Yang Lian scrive i poemi Taiyang meitian dou shi xin de [Il sole è nuovo ogni giorno, 1981]; Zi bai. Gei Yuanmingyuan feixu [Confessione. Alle rovine dello Yuanmingyuan, 1981]; Norlang (dal nome di una divinità tibetana, 1983; criticato dalle autorità culturali del governo, che ostacolarono la pubblicazione delle sue opere in Cina per più di un decennio); Xizang [Tibet, 1984] e Yi (dal 1985; il titolo è la trascrizione di un pittogramma inventato dallo stesso Yang Lian), oltre a vari volumi di prose poetiche, tra cui Haibian de haizi [Il bambino in riva al mare, 1982] e Shizhe [Colui che passa, 1985].
Sul finire degli anni Ottanta, Yang Lian comincia a viaggiare per il mondo, fissando un punto di ferma collaborazione con l’Università di Auckland in Nuova Zelanda. Yang Lian e l’amico Gu Cheng restano ad Auckland dove, in occasione dei fatti di Tian’an Men del 1989, organizzano una storica lettura di protesta presso la cappella Maclauren dell’Università. Le sue dichiarazioni contro questo massacro lo costringono ad un lungo esilio in varie città: Berlino (dove riceve una fellowship come artista residente da parte della DAAD), New York (presso la fondazione Yaddo), Sidney (dove insegna Lingua e Letteratura cinese all’Università) e, dal 1994, a Londra, dove tuttora risiede.
Oltre alle opere già citate, ha pubblicato diversi altri libri di prosa e di poesia, tra cui ricordiamo Mianju yu eyu [Maschere e coccodrilli, 1989]; Wurencheng [Impersonale, 1991]; Dahai tingzhi zhichu [Dove si ferma il mare, 1992]; Tongxinyuan [Cerchi concentrici, 1997]; Naxie yi [Tutti quegli uno, 1999]; Lihegu de shi [Poesie di Lea Valley, 2001].
Le sue opere sono state tradotte in 25 lingue. In Italia, i suoi versi sono stati pubblicati da Einaudi nell'antologia Nuovi poeti cinesi (Torino 1996; a cura di C. Pozzana e A. Russo) e nel 2004 è uscita la raccolta Dove si ferma il mare (Scheiwiller - Playon, Milano; a cura di C. Pozzana).
Com’è naturale i temi della poesia di Yang Lian ruotano attorno al suo lungo girovagare ed alla condizione umana che ne deriva: l’esilio provoca riflessioni, in particolare su di sé, sulla propria collocazione umana e geografica, sulla lingua.
Qui di seguito riporto l’intervista integrale a Yang Lian (una versione molto più breve è uscita sul Giornale di Vicenza del 13 maggio 2010). Voglio ringraziare Marta Nori, insegnante di Lingua e Letteratura Cinese presso il Liceo Pigafetta di Vicenza per il suo fondamentale ruolo di interprete e per le numerose informazioni che mi ha fornito e che ho ampiamente riportato in questo cappello introduttivo.
È vero che uno degli eventi che l’ha spinta a scrivere poesie è stata la morte di sua madre?
Sì è vero. Mia madre è morta nel gennaio del 1976. Io ero già per il terzo anno nelle campagne cinesi per la rieducazione a cui erano sottoposti tutti gli intellettuali. Prima della sua morte avevo scritto qualcosa, ma era tutto un po’ romantico e semplice, non avevo mai capito che la poesia nasceva dalla parte più profonda di me. Dopo la sua morte, in me si è creata una sensazione di vuoto enorme, anche perché ero da solo e non c’era nessuno vicino con cui potermi sfogare. La poesia è diventata allora l’unico modo di esprimermi, non solo per me, ma in qualche modo anche per parlare a mia madre. Quest’ultima sensazione segretamente è sempre con me. Quindi mia madre è stata quella che ha fatto iniziare la mia carriera di poeta, però non ha mai letto niente di quello che ho scritto.
Lei è molti altri poeti cinesi siete stati accusati di praticare una poesia “menglong”, cioè una poesia oscura. Come mai vi venne data questa etichetta denigratoria?
Prima di tutto per me poesia oscura non è un nome corretto, ed è nato perché la gente voleva criticarci in quanto non riusciva a capire quello che volevamo dire, come se la poesia fosse avvolta nella nebbia. Però, dal mio punto di vista, la poesia oscura è stata il primo momento in cui abbiamo iniziato a ripulire la lingua dopo la rivoluzione culturale. Ci siamo sbarazzati di tutti quei paroloni come socialismo, comunismo, e siamo tornati un po’ alla volta alla lingua tradizionale, o alla tradizione della lingua. Abbiamo parlato di morte, di vita, di sole, di luna, di dolore, però tutto in un modo moderno, per esprimere i nostri sentimenti. Quindi in qualche modo siamo andati incontro alla lingua tradizionale per esprimere però una situazione attuale. Abbiamo espresso i nostri sentimenti nella nostra propria lingua, e con “propria” intendo la lingua individuale di ciascuno di noi, quindi molto diversa da quella lingua di propaganda che aveva caratterizzato la Cina.
Qual è il suo rapporto con la poesia cinese classica?
Io scrivo in cinese. Si tratta di una lingua che è cambiata moltissimo e credo che non ci sia nessun cinese oggi che possa dire di essere una persona cinese classica. Amo la poesia classica cinese, ma non c’è modo di copiarla. Quello che posso fare è pormi delle domande e porre delle domande anche alla lingua, le più profonde possibili. Quindi, da un punto di vista filosofico, direi che la mia poesia serve ad esprimere la situazione dell’uomo. La poesia ha a che fare con la nostra vita. Anche se scrivo questa poesia, chiamiamola moderna, gli antichi poeti classici sono sempre dietro di me e mi guardano. Quando compongo una poesia, o quando penso alla musica dietro a questa poesia, devo anche chiedermi cosa penserebbero loro. Direi che la mia poesia è come una domanda moderna per rispondere alla quale devo raccogliere elementi da ogni direzione per essere creativo.
Il verso finale della poesia “1989” dedicata al massacro di Tian’an Men recita: “questo senza dubbio è un anno perfettamente ordinario” . È uno strano verso considerando la tragicità dell’evento…
Quando accadde il massacro di piazza Tian’an Men tutti eravamo scioccati da quello che vedevamo succedere, eravamo disperati e increduli. Allora mi è sorta questa domanda: «Dov’è la nostra memoria per tutti i morti che ci sono stati prima di questo evento, tutti i morti per esempio della rivoluzione culturale?». Sembrava che fosse la prima volta che vedevamo dei morti. Se le nostre lacrime servono solo per lavarci la memoria, allora chi è che può garantire che non succeda un’altra Tian’an Men?
In Omaggio alla poesia lei scrive: "Sono un poeta / se voglio che la rosa sbocci sboccerà / la libertà tornerà". Da questi versi emerge una grande fiducia nella poesia…
Quando ho scritto questa poesia ero ancora molto giovane, quindi è un po’ romantica. Però a distanza di trent’anni trovo che la mia fede nella poesia sia diventata più profonda e più forte. Penso che questo mondo globale stia diventando una globalità di cinismo e di egoismo in cui domina l’unione del potere e dei soldi globali. Anche se la poesia non viene rifiutata da questo potere e da questi soldi, tuttavia è la poesia a rifiutare loro. La poesia è la libertà del pensiero e della parola. La poesia è il luogo in cui possiamo opporre la nostra resistenza etica. Proprio per il potere che ha la poesia, penso che alla fine riuscirà a collegare e a unire tutti quei pensatori liberi che ci sono in tutto il mondo.
Lei oggi vive a Londra. Ha mai pensato di scrivere in inglese?
Penso che la lingua abbia molto a che fare con le nostre origini. Io sono sempre stato definito un poeta in esilio. Però mi sono chiesto: «Chi è che non è in esilio quando sei una persona creativa?». Perché naturalmente c’è un significato politico, ma anche uno linguistico. Io come poeta voglio creare la mia propria lingua, quindi non c’è soltanto una lingua cinese, ma c’è un cinese di Yang Lian. Ho tre nomi con i quali chiamo me stesso. Come prima cosa mi definisco un poeta della Cina. Perché naturalmente dopo il periodo della rivoluzione culturale, la poesia parla delle difficoltà politiche di quel paese. Poi naturalmente ho lasciato la Cina e ho vagato per altre paesi ed è stato così che mi sono reso conto che sempre la poesia ha a che fare con le difficoltà della vita in generale.
Inoltre, poiché scrivo in cinese, mi definisco anche il poeta della lingua cinese, però la mia lingua cinese è diversa da quella di altri cinesi. Il mio cinese non è facile da tradurre nelle altre lingue e quindi mi definiscono il poeta che scrive in “Yanglish”, un misto di “Yang” ed “english”.
Quindi non soltanto il poeta appartiene alla sua lingua madre ma anche la lingua appartiene al poeta. È il nostro pensiero, la nostra scrittura creativa che costituiscono la vera radice della lingua. Ed è in questo senso soltanto che posso dire che la tradizione cinese è una tradizione che vive. Tutto il mio viaggiare e girovagare ha come unico significato vero quello di rendere più profonda la mia esperienza che mi serve per essere creativo. È difficile però a me piace.
In cinese non esistono i tempi verbali, il verbo non cambia mai. Lei ha sempre sfruttato questa caratteristica perché, in un certo senso, permette alla storia di essere sempre riscritta e di esistere anche al presente. Qual è per lei la distanza tra presente e passato visto che non è sempre così chiara da un punto di vista grammaticale?
Effettivamente la lingua cinese è molto speciale. Si ha la sensazione che tenda sempre per prima cosa ad afferrare il concreto e poi un po’ alla volta torna indietro e fa scoprire l’intera situazione. Per esempio in cinese se diciamo bere il verbo non cambia mai, cent’anni fa bere, oggi bere, domani bere, quindi in questo verbo così fisso, stabile, è tutto compreso: presente, passato, futuro. Per me scrivere poesia in cinese è scrivere sulla situazione. Io la vedo come una situazione che non ha tempo e quindi per fortuna posso scrivere in una lingua che non ha tempo.
Quali sono i suoi rapporti con la Cina e con gli scrittori cinesi contemporanei?
Sono tornato in Cina abbastanza spesso perché amo mio padre che ha ottantotto anni ed è anche un modo per tenere un rapporto molto stretto con il mio Paese. La Cina di per se stessa è come una poesia molto complessa. Tutti, compresi i cinesi, quando pensano alla Cina hanno immagini molto differenti e complesse nella loro mente. Sembra un paese comunista ma è anche il grande fratello della società internazionale capitalista. Non è più come ai tempi della guerra fredda con la lotta tra comunismo e capitalismo, ma è come un enorme corpo che contiene molti elementi contradditori. Continua quel processo di trasformazione tradizionale iniziato all’inizio del secolo scorso con l’inserimento di nuovi elementi, soprattutto economici. Come poeta posso dire che la Cina non è un problema solo dei cinesi. Con il suo grande potere economico ha costretto tutto il mondo a giocare stando alle sue regole. Tutti i politici occidentali quando vanno in Cina normalmente fanno due cose. Per prima cosa devono assolutamente parlare di diritti umani e democrazia. Ma appena finita questa incombenza, si siedono e parlano di contratti di lavoro. Per me scrivere una poesia e confrontarmi con questa situazione internazionale è molto importante. È doloroso per me vedere questo gioco un po’ cinico. È un po’ un incubo però può essere fonte di ispirazione. Credo che la Cina com’è adesso ponga delle domande in ogni parte del mondo: Che cos’è la politica oggi? Qual è il vero significato della letteratura oggi? Qual è il vero legame tra la vita e la letteratura, cos’è che rende la letteratura necessaria? Se riusciamo a rispondere a queste domande potremmo crescere e aiuteremmo anche la Cina a crescere.
Ho contatti molto stretti con i miei amici poeti che vivono in Cina e so che se sono dei bravi scrittori non fanno parte di associazioni. Sono nella stessa situazione in cui mi trovavo io quando ero esiliato solo che loro si sono autoesiliati stando in Cina. Però ci sono moltissimi giovani poeti, quindi i siti web in cui vengono pubblicate le loro poesie sono molto vivaci. Adesso internet e i siti web sono diventati come le pubblicazioni underground dei nostri anni Ottanta. Quindi è tutto molto vivace ma ancora pieno di domande.
Parlando della sua poesia in un questionario a cui ha risposto tra il 1992 e il 1993, lei l’ha divisa in due periodi: dalla poesia lunga a quella breve. Può spiegarci meglio questa evoluzione? Oggi come si è ulteriormente evoluta?
Di solito non separo tanto la poesia breve dalla poesia lunga perché penso che la forma specifica della poesia debba essere necessaria rispetto a quello che devo dire.
Per me il 1989 è stato uno spartiacque, prima ho scritto due libri interi composti da una serie di poesie molto lunghe e dopo ho scritto invece poesie molto brevi. Prima del 1989 volevo scavare dentro tutti i vari strati della cultura tradizionale cinese, la sua lingua, la sua classicità, la sua musicalità e anche la sua attualità, il suo modernismo, per questo i poemi di allora sono molto lunghi. Per esempio l’opera che si intitola Yi è basata su uno dei testi classici della letteratura cinese però in un modo molto moderno e contemporaneo. Come per portare i 5000 anni di storia tradizionale cinese all’interno di una poesia moderna e in una struttura contemporanea. Dopo il 1989 mi sono trovato in esilio, in particolare in paesi occidentali e io non parlavo inglese quindi il problema è stato raccontare cosa mi era successo. Per questo i poemi che seguono il 1989 sono così taglienti, precisi, netti, perché dovevo in qualche modo tagliare quelle emozioni e quei sentimenti. Nell’opera Dove si ferma il mare, fatta di molte sequenze di poesie mi sono trovato per la prima volta, dopo aver lasciato la Cina, ad utilizzare nuovamente una forma molto ampia di poesia. Per tornare a quello che dicevo, tra forma e poesia ci deve essere una necessità, cioè posso scrivere cose molto sperimentali, posso tornare alla tradizione, alla classicità ma ci deve essere un incontro tra la mia mente e la mia anima.
Lei ha affermato che “ogni carattere cinese è una trappola in cui una dopo l’altra cadono intere generazioni”. Che cosa intendeva dire?
La lingua cinese è molto flessibile, ti permette anche di giocare molto, però è anche molto insidiosa. Ad esempio Ezra Pound ha creato il filone dell’imagismo, quasi un gioco che si poteva fare con la lingua cinese e con i suoi caratteri. È diventato quasi un marchio della lingua cinese. Però se guardo a questi giochi, a questi esperimenti, li trovo molto belli in apparenza, molto stimolanti, ma appena vado in profondità mi chiedo: «qual è il motivo, qual è la necessità per cui devo fare questi giochi?». Anche l’imagismo è diventato un gioco vuoto. È un gioco che può essere facile, perché si gioca con l’immagine, con la superficialità, la cosa difficile è scendere nella profondità della poesia.
Lei ha detto: “La poesia mi costringe ad accettare la realtà”. Quale tipo di realtà?
La realtà si compone di molte contraddizioni e, anche per quanto mi riguarda, ci sono molte di queste contraddizioni con le quali io devo un po’ alla volta venire a patti. Quindi è una questione di accettare sì la realtà esterna, ma anche me stesso. Per esempio, dopo la rivoluzione culturale, dopo il massacro di Tian’an Men, la gente si chiede sempre chi ha causato questo disastro. Però se guardo dentro di me devo riconoscere che anche una parte di me forse ha contribuito a creare questo disastro, questo problema. Perché adesso chi si ricorda più della rivoluzione culturale? Anche Tian’an Men quasi è dimenticata, adesso siamo tutti presi da questa ricchezza ed opulenza e dunque, in qualche modo, siamo anche noi responsabili di avere dimenticato i morti. Adesso la Cina non solo è esplosa dal punto di vista economico, ma addirittura produce benessere per l’occidente. Quando vedo i politici cinesi che fanno affari con gli industriali occidentali e firmano contratti e scambiano soldi e producono altri soldi, eccetera, forse anche loro sono responsabili di quelle morti. Forse l’unica verità è l’impossibilità di basare tutto sull’egoismo e il cinismo internazionale. Ho questa frase che mi è venuta proprio qui in Italia: «Iniziare dall’impossibile». Penso che la poesia mi abbia insegnato a come guardare dentro di me ma anche dove iniziare, quando iniziare per uscire e per rompere qualcosa.
In Cina i suoi libri circolano tranquillamente o c’è qualche forma di censura nei suoi confronti?
Sono stato ripubblicato in Cina dopo il massacro di Tian’an Men e nuovamente nel 1999, cioè a dieci anni di distanza. I miei libri sono stati ristampati e hanno venduto anche piuttosto bene. Io lavoro sempre almeno su due livelli, quello poetico e quello politico. Due anni fa sono stato eletto come membro di un gruppo di poeti internazionali e dopo allora il mio sito web è stato bloccato dal governo. La situazione è complessa perché io posso andare di nuovo in Cina, però quando lo faccio vengo guardato molto, molto da vicino. È una situazione abbastanza tipica nella Cina di oggi, in particolare gli scrittori indipendenti sono guardati in modo molto stretto. Naturalmente non riescono a controllare tutto quello che c’è su internet, però appena qualche intellettuale indipendente mette piede in Cina, viene controllato di persona.

19 maggio 2010

Intervista a Edoardo Sanguineti (28 aprile 2010)


Di Fabio Giaretta

Io Edoardo Sanguineti me l’ero sempre immaginato come un rivoluzionario iconoclasta, burbero e imbronciato, animato da un furore avanguardistico pronto a travolgere tutto e tutti. Invece, la persona che ho intervistato per il Giornale di Vicenza il 28 aprile dopo l’incontro di Dire poesia 2010 (rassegna poetica tenutasi a Vicenza tra marzo e maggio che vanterà sempre, tra i suoi numerosi meriti, quello di avere offerto a Vicenza la possibilità di incontrate il poeta genovese in quella che, molto probabilmente, è stata una delle sue ultime apparizioni pubbliche) si è rivelata totalmente diversa dalle mie infondate fantasticherie. Mi hanno enormemente spiazzato e colpito, oltre alla sua acutezza, alla sua guizzante vivacità intellettuale, alla sottile ironia, la sua squisita gentilezza, l’affabilità, la generosa disponibilità, la mancanza di qualsiasi snobistico distacco. La nostra intervista doveva durare un quarto d’ora. Inutile dire che durò molto di più. Sanguineti era un conversatore straordinario. Come ha scritto Antonio Gnoli, sapeva «essere intrigante, leggero, curioso, paradossale, come un frutto tardivo del pensiero libertino». Da quel mondo aveva ereditato «la nettezza di giudizio, la capacità provocatoria e quel gusto per l’oralità che si lascia facilmente avvolgere dall’immoralità». Sanguineti infatti non amava «le convenzioni , la prevedibilità, l’eccesso d’ordine, i discorsi edificanti». Quando fui costretto a spegnere il registratore perché lo reclamavano per la cena, avevo ancora mille domande in mente che avrei voluto rivolgergli. Avevo intenzione di ampliare telefonicamente questa nostra intervista, ma ora purtroppo non sarà più possibile. Rimane il privilegio di averlo potuto incontrare. (Voglio qui ringraziare anche Stefano Strazzabosco, lodevole curatore della rassegna, per aver permesso questo incontro). Di seguito riporto l’intervista integrale, uscita in forma un po’ ridotta nel Giornale di Vicenza del 4 maggio 2010.
Quale importanza hanno avuto secondo lei la Neoavanguardia e il Gruppo 63?
Credo sia stato un fenomeno importante non tanto in quanto gruppo di per sé ma soprattutto perché sciolse una specie di tabù. La cosa si può anticipare perché nel ’61 esce l’antologia dei Novissimi curata da Giuliani. Quella fu una rottura nella poesia italiana molto forte. Quasi tutti eravamo poeti, in tutto cinque, che avevano già pubblicato, però la raccolta dei nostri testi insieme diventò una sorta di manifesto e produsse un effetto molto forte. Cominciava un’epoca molto diversa. Come disse Arbasino, era ammesso che l’ansia di nuovo si manifestasse in America, in Europa, ad esempio con la nouvelle vague, le nouveau roman e via discorrendo ma non in Italia. Anche chi leggeva libri e aveva una qualche conoscenza di Kafka, Joyce, Proust eccetera, in fondo era poco influenzato. Noi allora rompemmo un tabù. Il gruppo ebbe il merito di incitare ad una nuova figura di intellettuale che non era più il puro letterato della tradizione ermetica e neppure neorelista, che in poesia aveva dato peraltro risultati molto modesti. La rottura del tabù fece sì che di colpo si pensò un intellettuale che fosse al corrente con la linguistica, lo strutturalismo, la psicanalisi, la sociologia e via dicendo e non quel letterato puro della tradizione ermetica. Questa fu l’influenza più forte, influenza che si spense con il ’68. La politica disfa il gruppo: c’è chi non ha nessun interesse politico e c’è chi milita per questo o quel partito, non necessariamente lo stesso.
Quale eredità è rimasta oggi di quell’esperienza?
È rimasta senza più confessarla. Quella che era la forza di contestazione, il voler essere diversi dalla vecchia figura di intellettuale non c’è più. I poeti vanno al Costanzo show, spesso magari anche in trasmissioni serie, come quella di Fazio. Se uno fa un nuovo disco, un nuovo libro, va lì, perché è lanciato, per una settimana ottiene attenzione e successo, entra magari in testa alle classifiche, poi però, dopo poco, si spengono gli entusiasmi. Il peso però che ebbe quell’esperienza fu all’inizio molto forte, tutti cambiarono il modo di scrivere, da Pasolini a Luzi a Moravia a Zanzotto. Smisero quel loro atteggiamento che era molto ermetico, neoermetico, postermetico e capirono che facevamo parte dell’Europa e del mondo. Si svecchia insomma la poesia italiana.
Nelle sue poesie si nota una grandissima attenzione per la corporalità e per la fisiologia. Per quale ragione?
Ci sono molte ragioni. Prima di tutto io sono un materialista, proprio nel senso del materialismo storico. L’anima per me coincide con il mondo psichico, che certamente ha una sua esistenza se interpretato soprattutto in termini psicanalitici. Io poi con gli anni sono diventato sempre più groddeckiano. Groddeck era una specie di strano personaggio che diceva alcune cose assai poco attendibili ma ebbe anche intuizioni straordinarie. Freud lo ammirò molto, anche se lo addomesticò, nel complesso aveva idee diverse, però il concetto di Es inteso come inconscio profondo, lo riprese da lui. Noi siamo corpi. Questa è la mia idea fondamentale. Raccontare una storia di un individuo è prima di tutto la storia di un corpo. Noi nasciamo animali, poi cerchiamo di addomesticarci socialmente, tuttavia passare dalla natura alla storia è una cosa difficilissima. Passare dalla bestialità originaria a un tentativo di addomesticamento, di cultura, di storicità, è una fatica terribile sia per chi deve compierla sia per chi deve porla in atto; per un bambino diventare conscio e adulto è faticosissimo ed è faticosissimo anche per chi se ne prende cura. Addomesticare un bambino è una cosa durissima. Poi ci sono certamente ragioni anche più soggettive, cioè un forte interesse per la tematica del corpo, da un lato come corpo del piacere, come luogo di estasi, che comporta tutta la sfera dell’erotico e del desiderio, e dall’altro lato come luogo di sofferenza, di patimento e infine di dissolvimento e di morte.
La sua ricerca si basa sull’arte di saper bene come scrivere male. Che cosa voleva dire con questo paradosso?
Era un paradosso perché voleva rifiutare lo stile. C’è un mio verso che dice: oggi il mio stile è non avere stile. Da un lato vuol dire che non voglio chiudermi in una maniera di scrittura, in uno stile. Quindi in ogni libro che faccio, anche nelle traduzioni, nei saggi, cerco di affrontare problemi nuovi. Dall’altro lato non avere stile nel senso corrente della parola. Essere un uomo che ha uno stile vuol dire avere garbo e basta. Rifiutare uno stile, in questo senso, significa rinunciare a quella sorta di educazione cortese che spesso nasconde un’insincerità, una falsa gentilezza. Questa idea nacque in Olanda. Ero in Olanda con un poeta tedesco. Parlavamo dell’arte di scrivere male partendo dal problema del tradurre. Sapere bene come scrivere male, che agli occhi della gente può apparire come una mancanza di stile, di eleganza, è un modo di cercare di dire la verità.
I suoi versi nel corso degli anni si sono aperti sempre più alla quotidianità. In una sua poesia-ricetta si legge: Per preparare una poesia, si prende un piccolo fatto vero (possibilmente fresco di giornata)… Come mai è nato in lei questo bisogno?
La poesia che lei cita è molto ironica, si presenta come una ricetta di cucina. Ho cercato di affrontare la quotidianità. Questa poetica del piccolo fatto vero è diventata dominante in una lunga fase della mia scrittura anche se come al solito cercavo di non chiudermi in uno stile. Però questa riconoscibilità del fatto vero, dove sono indicati i luoghi, le persone sono riconoscibili, c’è il numero della camera d’albergo, questo eccesso di precisione mi tentava molto. Mi tentava molto passare da una poesia relativamente più astratta, usiamo questo termine, ad una poesia iperconcreta. Un’evidenza dell’esistenziale o come si diceva una volta con un termine caduto di moda, l’evidenza dell’esistentivo.
Qual è il suo giudizio sulla poesia contemporanea?
Come accennavo prima, con la fine degli anni Settanta, e non solo in Italia, la poesia diventa una questione di successo. Si vuole vendere. Il tentativo di mercificarsi era esattamente l’opposto di quello che le avanguardie storiche avevano praticato. Esse sostenevano l’idea della non merce e quindi erano contro la museificazione. Noi avevamo cercato di riprendere come punto di forza del gruppo questa idea. Molto è rimasto di questo effetto di rottura però indebolendosi completamente. Sono ancora largamente utilizzati elementi cominciati solo nel gruppo, come ad esempio certi modi di linguaggio, però tutta la forza contestativa si è spenta. Si vuole successo.
Nel nostro mondo mercificato, cosa dovrebbe fare la poesia?
Io credo che il problema sia, e in questo sono un materialista storico, riuscire ad essere realisti. Ovviamente lei mi dirà, e chiunque altro mi direbbe, cosa vuol dire essere realisti? È questo il problema. Evidentemente ciascuno di noi ha un’opinione della realtà e di che cosa la rappresenti autenticamente. Gramsci diceva una cosa molto importante: nella cultura non è importante avere nuove idee, chiunque è capace di sognare mondi belli, rosei e del resto temi di questo genere erano già presenti in Marx e in Engels. Bisogna invece cercare di indicare le linee di sviluppo, che sono continue, il mondo infatti muta continuamente. Allora se io ascolto le notizie, leggo i giornali, mi informo, eccetera, devo continuamente aggiornare il mio modo di percepire la realtà. Questo è il problema. Da questo punto di vista, è poco importante la posizione politica finale che può assumere un autore. Quello che è importante è che da un lato via sia una pulsione anarchica originaria di rivolta e di protesta, e dall’altro lato la capacità di dire: questa è la realtà. Questo oggi interessa assai poco. I poeti dicono: non siamo impegnati, destra e sinistra non significano più nulla.
Le sue poesie hanno sempre un carattere fortemente giocoso. Questo appare evidente anche nel sonetto inedito che lei ha scritto per Vicenza…
La poesia ha ripreso sempre di più delle forme di gioco verbale, ma non gratuito, vicino alla ricerca della contrainte, della costrizione. Scrivere un sonetto vuol dire accettare certe regole. Se la regola viene accettata esasperando le astuzie di complicazione e di autocostringimento, vuol dire che non si sta cercando tanto il puro gioco ma di sperimentare nuove forme di linguaggio. Il sonetto che ho scritto per Vicenza è forse allo stato attuale il sonetto più acrobatico che ho fatto per le complicazioni con cui è costruito, le allusioni che vi sono presenti. Quindi c’è un aspetto di gioco. C’è una frase famosa di Hölderlin, che piaceva molto a Heidegger, che dice: la poesia è il gioco più serio che ci sia. Credo che questo elemento apparentemente di gioco, di divertimento, può diventare uno strumento molto serio. Modificare una parola, un verso, complicarlo, non è un gioco arbitrario, ma molto serio perché attira l’attenzione sul linguaggio e sulle parole. Bisogna stare attenti alle parole che si usano. Bisogna portare l’attenzione sul peso che ha il linguaggio. Dimmi come parli e ti dirò chi sei.
Lei si è definito un ottimista catastrofico. Cosa intende dire esattamente con questa definizione?
L’ottimismo catastrofico nasce da questo: io penso che siamo alle soglie di una catastrofe economica e sociale senza confine. Questa è sempre più vicina. Oggi è successo alla Grecia, al Portogallo, domani capiterà anche da noi. Sta capitando dappertutto, gli Stati Uniti sono già completamente investiti, Obama non mi piace assolutamente. Gli unici che svolgono una politica, può piacere o meno, molto astuta, sono i cinesi e gli indiani. Ottimismo invece è legato a quello che diceva Gramsci: l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione. Proprio perché sono un pessimista catastrofico e considero che la catastrofe sia già avvenuta, semplicemente si tratta solo di prenderne coscienza, bisogna cercare di moltiplicare l’ottimismo della volontà. Il tempo è pochissimo. È necessario che rinasca una coscienza di classe della massa enorme di proletari e sottoproletari di fronte alle élite di potere che è dei Putin, degli Obama, dei Berlusconi. Bisogna riprendere una coscienza critica di classe. Adoro quello che diceva Benjamin: Quello che ha rovinato il mondo è l’idea socialdemocratica riformistica per cui bisogna pensare alla felicità dei figli. Lui diceva invece che il problema è vendicare le sofferenze dei padri. La poesia può servire a far prendere coscienza di come stanno le cose.
Sanguineti quindi è ancora un poeta rivoluzionario…
Sì, sì è una parola che mi piace molto. Non di riforme abbiamo bisogno ma di rivoluzione nel senso marxiano della parola.
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Ecco il sonetto che Edoardo Sanguineti ha dedicato a Vicenza: Come si può notare le iniziali di ogni verso formano Vicenza (primi sette versi) e Azneciv (ultimi sette versi). Inoltre ogni parola di ogni verso inizia con la stessa lettera della parola iniziale. E' un sonetto un po' particolare visto che le due terzine anzichè essere alla fine sono al centro, incorniciate dalle due quartine.
Sonetto vicentino

Vasti versi virili, vitalmente,
In invidiate, in innocenti imprese,
Cozzano con colonne, caldamente
Ezzeliniane, evidenziate, estese:

Nei nodi nuovi, nei nobili nani
Zoppicanti, zaffate zolforose
Apprendono amaretti astati, arcani:

Asparagi ad Andrea, acque amorose,
Zeno, zone zittite, zafferani,
Novellatrici newage, ninnolose:

Ecco eunomíe, endemonicamente
Cangrandesche, criptoportici, chiese
Incantate, ieromanticamente:
Vedo vicus, virtù vespaiolese:

22 marzo 2010

Intervista a Douglas Dunn


(Pubblico in forma più ampia e leggermente modificata questa intervista a Douglas Dunn, uscita ne Il giornale di Vicenza il 5 maggio del 2009)

di Fabio Giaretta

Da quarant’anni Douglas Dunn, uno dei più importanti poeti inglesi contemporanei, cerca di catturare con i suoi versi la musica di ciò che accade. Quello che subito colpisce nelle sue poesie è la totale apertura dialogante nei confronti del reale e delle sue caleidoscopiche manifestazioni. Nonostante il suo valore, questo poeta è però ancora poco noto in Italia. Lo dimostra il fatto che l’unico libro che possiamo leggere in italiano, curato e tradotto da Marco Fazzini, è la preziosa raccolta di testi scelti Long Ago (Lugo: Edizioni del Bradipo, 2003).
Abbiamo intervistato Douglas Dunn con la preziosa collaborazione di Marco Fazzini che ringraziamo.
Quando si è reso conto di poter diventare uno scrittore?
Ho sempre voluto essere uno scrittore ma mi sono reso conto di poterlo diventare qualche anno dopo la pubblicazione del mio primo libro Terry Street, avvenuta nel 1969. Dalla fine degli anni Sessanta ho poi vissuto di scrittura per circa vent’anni facendo il collaboratore di riviste, il recensore, scrivendo racconti…
Lei è nato e vive in Scozia. Quali sono i tratti più propriamente scozzesi che caratterizzano la sua poesia?
Non mi sento molto caratteristico come scrittore scozzese. Aspiro ad essere eclettico.
Le sue poesie hanno sempre una fortissima carica realistica ma viene lasciato largo margine anche all’immaginazione. Quale rapporto si crea tra queste due dimensioni?
Molte volte i dettagli del quotidiano fanno scattare l’immaginazione ma anche la dimensione spirituale della vita e della scrittura. Quindi questi due elementi sono molto connessi tra loro.
Ci sono dei tratti comuni che caratterizzano tutte le raccolte che ha scritto finora?
La volontà di trarre poesia da ciò che accade, di cogliere la musica di ciò che accade.
Lei ha sempre considerato il poeta Philip Larkin il suo mentore. Può dirci in che modo ha influenzato la sua vita e la sua poesia?
Ha avuto un influsso indubbiamente grande. E’ stato un amico che con me si è comportato con grande dignità. Ha avuto una grossa influenza non solo su di me ma anche su tutto il panorama britannico, pur vivendo, come me, ai margini del mondo letterario. Una cosa che ammiravo molto in lui era il senso dell’umorismo. Ho ripreso questa caratteristica in molte mie raccolte, anche se purtroppo è la prima cosa che si perde nella traduzione.
Quali autori l’hanno maggiormente influenzata? Ci sono dei poeti italiani tra i suoi modelli letterari?
Shakespeare senz’altro. Alcuni autori medievali scozzesi. Quando ero studente sono stato molto influenzato da Andrew Marvell, John Milton, Robert Burns. Ho letto e riletto Auden, la mia copia delle sue poesie scelte è distrutta da quanto l’ho sfogliata negli anni.
Tra gli italiani ammiro molto Leopardi che ho anche tradotto.
In che modo è entrato in contatto con la poesia di Leopardi?
E’ stata una coincidenza. Quando Cossiga era presidente della repubblica, doveva visitare la Scozia perché l’università di Edimburgo gli aveva conferito una laurea honoris causa. E’ nata così l’idea di far tradurre Leopardi, che era il poeta preferito di Cossiga, a vari poeti scozzesi. Così sono stato contattato per alcuni testi. Da qui ho iniziato a interessarmi della poetica di Leopardi che mi è piaciuta particolarmente. Però c’è stata una crisi proprio nei giorni in cui Cossiga doveva venire in Scozia quindi per ironia della sorte non è venuto a prendere né la laurea né il volume con le poesie di Leopardi.
In Elegies, raccolta poetica del 1985 incentrata sulla malattia e sulla morte della sua prima moglie, Lesley Balfour, la reticenza presente nei suoi libri precedenti ha lasciato posto ad un maggior denudamento, il suo io non appare più celato…
Se sei un poeta devi avere il coraggio dell’onestà nei confronti di ciò che ti è accaduto, altrimenti resta in te qualcosa di represso. Se non lo fai uscire, cessi di essere un vero poeta.
Il libro oggi in Gran Bretagna è considerato un classico. Come ha vissuto il grande successo di questa silloge?
Non mi sono interessato molto al successo di questa raccolta. Per me non ha fatto la differenza. Conosco dottori che usano il libro con fini terapeutici e lo danno ai loro pazienti. Ricevo ancora, dopo tanti anni, lettere da vari lettori che mi ringraziano per averlo scritto. Per me è stato un modo per ricordare l’amore che ho vissuto. Quando ho saputo che anche i genitori di mia moglie hanno approvato quest’opera ho capito di aver fatto la cosa giusta.
Terry Street, strada proletaria di un quartiere di Hull dove lei visse per un certo periodo, è la protagonista assoluta della sua prima raccolta poetica. Visto che oggi è stata smantellata, si può dire che, in qualche modo, la sua poesia l’ha salvata?
In verità Terry Street stava cadendo a pezzi quindi se ne è andata per vecchiaia. Era comunque un luogo degradato e poco piacevole. Quindi direi che il mio libro più che salvare Terry Street semmai le ha dato una spinta in più affinché se ne andasse.
Le persone che abitavano a Terry Street non furono contente delle mie poesie. Io tra l’altro non ero del posto, ero uno scozzese trapiantato in Inghilterra, precisamente a Hull, quindi sono sempre stato considerato un estraneo. Ricordo che su un giornale uscì un articolo dal titolo molto ironico: la fama è arrivata finalmente a Terry Street, che piaccia o no.
Come mai nelle sue opere, si è via via accentuato il rigore metrico?
Amo la versificazione e, soprattutto negli ultimi vent’anni durante i quali sono stato professore all’università, ho adorato il fatto di avere tempo libero per dedicarmi ad essa. Le poesie, oltre che mirare ai contenuti, devono avere anche uno spessore legato alla versificazione.
Quale funzione ha per lei la poesia nella nostra società contemporanea?
Per prima cosa dovrebbe aiutare la lingua a combattere l’imprecisione e il depauperamento che sempre più la caratterizzano. Qualcuno pensa che la poesia possa essere un sostituto della religione. Io non credo che sia un sostituto, ma ha la stessa funzione della religione perché si occupa della verità. Come la religione potrebbe rendere la vita più significativa. Queste idee non aiutano certo a scrivere delle belle poesie, ma dovrebbero accompagnare ogni vero poeta.
In Italia per quanto riguarda la poesia si assiste ad una situazione paradossale: moltissimi scrivono poesia, ma pochissimi la leggono. È così anche in Gran Bretagna?
Probabilmente succede lo stesso anche in Gran Bretagna. Io sono giudice di un premio di poesia e mi sono arrivati circa 1500 testi da esaminare… Ed è un premio minore. Ci sono decine di migliaia di persone che si laureano ma poche comprano libri di poesia. Forse bisognerebbe chiedersi se c’è qualcosa di sbagliato nella poesia piuttosto che in coloro che non comprano i libri. Adrian Mitchell, un poeta inglese morto recentemente, diceva che la maggior parte della gente ignora i poeti perché la maggior parte dei poeti ignora la gente.
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BIOGRAFIA: Douglas dunn, poeta, narratore e saggista scozzese, è nato nel 1942 ad Inchinnan, nel Renfrewshire. Ha conseguito la laurea in letteratura inglese all'Università di Hull, dove ha insegnato. È stato docente d'inglese alla St. Andrews University, divenendo direttore dello Scottish Studies Institute. Membro della Royal Society of Literature, nel 2003 è stato nominato Officer of the Order of the British Empire. La sua vasta produzione in versi, che lo consacra come uno degli autori più importanti della poesia inglese contemporanea, ha inizio con la silloge Terry Street (1969), premiata con lo Scottish Arts Council Book Award e con il Somerset Maugham Award. Seguono The happier life (1972) e Love or Nothing (1974), con cui l'autore riceve lo Scottish Arts Council Book Award e il Geoffrey Faber Memorial Prize. Escono successivamente le raccolte Barbarians (1979) e St Kilda's Parliament (1981), che vince lo Hawthornden Prize. È del 1982 il poema Europa's lover. La silloge intitolata Elegies, edita nel 1985, è uno dei suoi capolavori, per la quale gli sono conferiti il Whitbread Book of the Year, il Geoffrey Faber Memorial Prize, lo Hawthornden Prize e il Cholmondeley Award. Successivamente vengono pubblicati i volumi di poesie Northlight (1988) e Dante's drum-kit (1993). Nel 2000 escono le raccolte poetiche The Donkey's Ears e The Year's Afternoon. Marco Fazzini ha curato e tradotto in italiano una selezione di testi dell'autore nel florilegio Long ago e altre poesie scelte 1969-2000 (Edizioni del Bradipo, Lugo di Romagna 2003).dunn si è dedicato anche alla narrativa, componendo due libri di racconti: Secret Villages (1985) e Girlfriends and Boyfriends (1995). È autore di saggi (Under the influence: douglas dunn on Philip Larkin, 1987), curatore di numerose antologie e traduttore dal francese (Andromaque di Racine, 1990). Collabora con vari giornali come il “Glasgow Herald", il “New Yorker" e il “Times Literary Supplement" e ha scritto commedie destinate alla radio e alla televisione.