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24 agosto 2010

C'è bufera dentro la madre di Stefano Guglielmin

Quella che segue è la recensione integrale (uscita in forma leggermente ridotta sul Giornale di Vicenza del 19 agosto 2010) che ho scritto sull'ultima raccolta poetica di Stefano Guglielmin.

di Fabio Giaretta

Tra i non pochi poeti, o sedicenti tali, attivi oggi nel Nord-Est, lo scledense Stefano Guglielmin è senz’altro tra i più dotati e consapevoli. Ne è un’ulteriore conferma la sua nuova raccolta poetica, C’è bufera dentro la madre (L’arcolaio, pagg. 56, euro 11) nella quale l’autore fa i conti con il nostro presente. La bufera del titolo allude infatti alla crisi economica e alla crisi di valori che si è scatenata all’interno di quella che Guglielmin chiama "la madre". Questo termine fa riferimento all’organismo nel quale siamo immersi, al grembo, oramai malato, che ci tiene in vita, che ci determina e dal quale non possiamo uscire. Scopo dell’autore diventa quindi quello, come scrive Cristina Annino nella prefazione, di "indagare secondo ragione la vita vera quando collassa". Un’indagine pietosa e crudele nello stesso tempo, che si articola in 39 brevi ma densissimi testi, nei quali il poeta descrive la realtà che ci circonda procedendo per schegge, per frammenti, utilizzando immagini che, grazie alla loro originalità e forza polisemica, evitano la trappola del luogo comune e della banalità. I versi, per aderire al mondo degradato che viene descritto, si fanno asciutti e disadorni. Come per Montale, esplicitamente presente tra i modelli della raccolta fin dal titolo, anche per Guglielmin il poeta, pur non rinunciando al suo compito di denuncia del mondo mercificato e massificato, è in grado offrire solo "qualche storta sillaba e secca" che non può, e non vuole, mostrare rassicuranti soluzioni.
Nel libro, la bufera viene vista attraverso gli occhi di una terza persona dai contorni sfumati ma che può essere identificata, ad un primo livello, con il padrone di una fabbrica, un "unto del bendidìo". Egli appare scisso tra due dimensioni, una diurna, predominante, e una notturna. Di giorno segue in modo implacabile la logica del profitto ed è animato da un delirio di controllo assoluto che lo porta a dire "io sono il signore dio mio / forcina del mondo". Egli è spinto da un senso di superiorità virile, ben rappresentata dall’immagine fallica del "ramo", che spesso tocca attraverso le tasche come se volesse ricordare continuamente a se stesso il suo potere. È un Caino nato da parto gemellare che "fonda regole e città, marca rioni. / vorrebbe giardini intorno, ma fa crateri, e quando apre, strappa".
Di notte, invece, diventa più vulnerabile, "prima di dormire, prega abele / di non lasciarlo". Quando cala l’oscurità si insinua infatti il tarlo del dubbio e si aprono spiragli di larvale tormento e di malinconica consapevolezza in cui la bufera pare acquietarsi. Egli percepisce allora che tutto quello che ha costruito poggia su un "solido nulla dove la vita trottola e canticchia". Quando pensa alla morte tutta la sua vita vacilla: "teme la morte perché non viene a mezzadria. dopocena, poi / lascia i vermi sul piatto e non dà il resto. lui preferisce / il negozio: dare e avere, comprare. ma la morte è una bocca / impagabile, una ciste che va in fregola appena la sfiora. / quando la tocca, tutta la madre trema". Sono però solo brevi momenti, destinati ad evaporare con l’alba.
Ad un livello di lettura più profonda questo padrone diventa però una sorta di io plurale che ci ingloba tutti, in quanto tutti noi siamo figli del sistema occidentale, della sua logica e delle sue storture. Anche noi vorremmo intorno giardini, ma, piuttosto di rinunciare al nostro stile di vita, continuiamo a preferire i crateri. Se spalancassimo gli occhi sul solido nulla che ci circonda, anche noi ci renderemmo conto che "il crepo è totale, che smangia i bordi / anche al nido". Parafrasando la poesia 34, se inorridissimo davvero, se insabbiassimo il perno che ci lega alla pancia del denaro, se riuscissimo a scavare dentro “la madre” una pozza di vita vera, forse, la bufera, di cui anche noi siamo diretti responsabili, un po’ si quieterebbe.

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