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3 settembre 2006

Il tremito di Giuliano Scabia


I libri di Giuliano Scabia hanno il potere di dissodare lo spirito e il corpo. Ti zappano dentro, spargono generosamente fecondi semi, rendendoti fertile e germogliante terreno. Non fa eccezione il suo ultimo breve, ma illuminante libro, Il tremito, sottotitolo Che cos'è la poesia? (Casagrande, pp. 93, 11,50 euro). In quest'opera, Scabia, nato a Padova nel 1935, instancabile uomo di teatro, scrittore e poeta lontano da qualsiasi moda ed etichetta, racconta in quindici scritti, sempre increspati da un gioioso fremito poetico, i suoi viaggi fisici e mentali alla ricerca di una voce che sappia rinnovare e rigenerare continuamente le infinite potenzialità della lingua. Come scrive Iosif Brodskij infatti, esplicitamente citato ne Il tremito, una sorta di manifesto poetico in versi che dà il titolo al libro, «la patria del poeta è la sua lingua». Per questo il poeta, e Scabia lo è senz'altro, si avventura con lei, combatte con lei, la coltiva incessantemente affinché risorga il suo tremito profondo che si scatena quando «l'armatura secca dei comportamenti / e della mente conformata, costretta, / va in frantumi». Solo se frantumiamo la desertica e sterile lingua che sempre più spaventosamente ci spossessa del nostro essere più profondo, solo se apriamo una fessura nelle rocce della mente, attraverso la quale fluisca, con la forza di un terremoto, «la vivenza profonda della lingua», è possibile far sgorgare una poesia capace di scoccare «frecce gravide di germogli» che risvegliano «la sete di vita in chi è colpito».
La lingua per Scabia è qualcosa di magico, una sorta di sacro Graal; nella prosa Cosa sarebbe il mondo senza bambini animali e piante ad essa viene addirittura attribuito il potere di creare le cose. Attraverso l'atto della nominazione si manifesta infatti una continua, festante genesi.

Nella sua ricerca del Graal della lingua, Scabia insegue varie tracce e talvolta succede che coloro che le hanno lasciate appaiano all'improvviso, e si mettano a camminare con lui. In viaggio attraverso i sentieri della poesia Scabia incontra diversi compagni, tra cui San Francesco, Collodi, Ippolito Nievo, Borges, al centro di una gustosa fantasia letteraria, Tarkovskij, Rigoni Stern, a cui indirizza parole di profonda intesa umana ed artistica: «Mi fa entrare con umiltà in ciò che descrive; lo sento familiare. Cammina dentro ciò che fa. Ho stima di lui anche perché è vero - e non ha le miserie e il cinismo di molti scrittori». Nello scritto Meneghello e l'acqua di Malo, Scabia racconta invece di un incontro con Meneghello, avvenuto nel gennaio del 1987 al museo Casabianca. Non stupisce la profonda ammirazione di Scabia per Meneghello, se si pensa che quest'ultimo, in tutta la sua opera, ha compiuto un'ininterrotta «discesa linguistica, immaginale e metafisica, al di là della superficie fisica delle parole, nel loro retro, nel sopra e nel sotto». Non stupisce neppure che tra i vari compagni di viaggio di Scabia vi sia anche Zanzotto - protagonista dello scritto Per un ritratto di Andrea Zanzotto - uno dei più grandi poeti del Novecento, che ha dedicato tutta la sua vita ad un'inesausta esplorazione e rigenerazione della lingua.
Ispirato da tutti questi compagni di viaggio, Scabia insegue da anni, con coraggiosa e tenace dedizione, il germogliante tremito della poesia, tenendosi lontano sia da una cultura sempre più incrostata, massificata e irrigidita, sia da tutti quei luoghi comuni, purtroppo assai radicati, che vogliono l'arte figlia esclusivamente dell'angoscia, della malinconia, dell'ansia. Per Scabia l'arte è invece un festoso, incontenibile e danzante gioco, simile a quello di un cane che corre e balza qua e là con un pezzo di ramo in bocca. Come scrive nella prosa dedicata ad Ippolito Nievo, l'arte è «un tornar su se stessi ballando e prendendo slanci per brevi voli avendo in bocca qualcosa che è un ramo ma significa qualcos'altro, in compagnia di qualcuno che prende parte al gioco».