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11 maggio 2006

Intervista a Cesare Viviani (2005)


"Bisogna rompere questa specie di passività da intrattenimento e da spettacolo che si è stabilita in ogni campo dell'esperienza". Con queste parole, Cesare Viviani, poeta di indubbio rilievo nel panorama della poesia italiana contemporanea, ha subito messo in guardia le numerose persone accorse a Palazzo Toaldi Capra a Schio per il quinto incontro del quarto ciclo di Poesia/Poesie, Incontri con la poesia contemporanea. Viviani è partito dalla constatazione che un incontro con l'autore ha senso soltanto se esso non si riduce ad un piacevole intrattenimento, ma stimola poi la voglia di passare alla pagina scritta. "Un tempo" ha detto il poeta "si considerava un'esperienza felice incontrare un libro che ci riempisse di gioia. Un libro importante della nostra vita diventava un incontro d'amore. Ricordo però che si ripeteva più volte la frase: preferisco non conoscere lo scrittore perché l'incontro inevitabilmente deluderebbe, sarebbe inferiore rispetto al libro. Oggi invece la situazione mi sembra si sia capovolta: c'è molta curiosità di conoscere l'autore, poca di leggere il libro. Il contatto con la poesia non può limitarsi a quello con il poeta, ma deve avvenire soprattutto sulla pagina scritta. Incontri come questo hanno senso se riescono a stimolare il desiderio di leggere i libri. Si è diffuso un modo troppo disinvolto di vivere, ogni cosa appare unificata in una mistura un po' nauseante dove tutto è comunicabile, tutto è facile. La poesia fa parte di quelle esperienze con le quali non si può essere disinvolti e facili". In perfetta coerenza con queste parole, tutta l'opera poetica di Viviani, compreso il suo ultimo inafferrabile libro La forma della vita che il poeta ha presentato a Schio, può essere vista come una ferma opposizione contro la percezione leggera, superficiale e disinvolta dell'esistenza oggi dominante. Un'opposizione non protetta dai privilegi di un sapere superiore che, inseguendo la nudità della parola, privata di tutte le sue potenzialità di cattura e di potere, mira a riproporre la nudità dell'essere umano. Dopo l'intenso e stimolante incontro con il pubblico, abbiamo rivolto a Cesare Viviani alcune domande.
Riferendosi alla genesi de La forma della vita lei ha scritto di aver voluto ripercorrere l'esperienza di quei pittori che hanno avuto la fortuna di entrare in una cappella o in una stanza di palazzi patrizi e di lavorare per anni ad affrescarle?
Visitando i cicli di affreschi di questi pittori mi sono trovato ad ammirare il loro tipo di esperienza: queste persone passavano quattro, cinque anni della loro vita in questi luoghi lavorando tutti i giorni, pazientemente e umilmente, per far progredire la loro grande opera di rappresentazione. E nonostante il loro lavoro nascesse da questa attività quotidiana, cercavano di dare alla loro opera un'apertura verso una dimensione che andasse al di là del quotidiano stesso. Allora mi sono detto, almeno una volta nella vita voglio provare anch'io questa esperienza. Voglio cioè mettermi in una stanza, per quattro, cinque anni, e fare un lavoro paziente, umile, per "affrescare" e rappresentare il mio tempo.
In questo suo "ciclo di affreschi", che le ha richiesto cinque anni di lavoro, c'è un'assoluta centralità della vita quotidiana?
La forma della vita è nato dall'esigenza di far comparire sulla scena le persone comuni, tutte quelle esistenze che si incontrano quotidianamente lungo la via. I vari personaggi portano un pezzo della loro vita, compaiono una volta e poi spariscono per sempre. Mostrano se stessi attraverso i gesti più normali e i discorsi più semplici.
Le molte figure che compaiono nel libro sono spesso occupate nel fare qualcosa. C'è una ragione dietro questa preminenza del "fare"?
Davanti ai nostri occhi, tutti i giorni, si vede che ciascuno di noi fa qualcosa. La mattina ci si alza e si dice: «cosa devo fare oggi?». E a quel punto riusciamo a ricollocarci nella catena delle attività. Ogni nostro gesto, se lo si guarda, è un modo per dare a noi stessi la sicurezza del nostro esserci. Ma cos'è questa certezza espressa dalle azioni più semplici, se non un modo per allontanare il profondo senso di incertezza in cui è immersa la nostra vita? Il gesto quotidiano ha una grandissima pregnanza, parla di ciò che viene fatto, ma anche del significato di salvezza che gli attribuiamo. Il continuo confronto con l'incerto, con l'infinito e con il nulla dovrebbe portarci ad una condivisione della sorte di precarietà e fragilità che accomuna tutte le esistenze. La vita non va vista come una forma risolta ma irrisolta e l'uomo deve imparare a portarla dentro di sé senza negarla. Bisogna abbandonare la disinvoltura brillante, superba, orgogliosa con cui si tratta oggi l'esistenza. Non siamo padroni della nostra vita, essa ci domina in ogni momento, siamo presenze assolutamente fragili ed effimere.
L'accettazione della forma irrisolta della vita e della sua dimensione di profonda incertezza può quindi assumere un valore in un certo senso salvifico per l'essere umano?
Nel rapporto con l'infinito, con il nulla, con la dimensione di assoluta incertezza della vita umana, l'uomo dovrebbe trovare una via per umanizzarsi e per mettere da parte l'orgoglio, l'arroganza, la prepotenza. Nella condivisione con gli altri del proprio destino di precarietà si può trovare il senso profondo della nostra esistenza. Si sente spesso dire che durante la guerra c'era un clima più solidale e più umano. Questo perché erano tutti poveri, tutti costantemente sotto la minaccia dei bombardamenti. Si viveva in una situazione di precarietà continua. Poi con il benessere gli esseri umani diventano più egoisti, prepotenti, sicuri. Per aumentare la solidarietà e la fratellanza bisogna considerare che noi siamo sempre in guerra, anche se non ci bombardano. Le condizioni della vita umana sono sempre le stesse, sempre estremamente incerte e precarie. La grande spiritualità cristiana e non, tende ad un dialogo continuo con la morte proprio perché non venga mai dimenticata la condizione di precarietà e fragilità della vita umana. Se noi continuiamo a cercare di vincere l'incertezza, l'insicurezza, la paura accumulando beni e potere siamo sulla strada sbagliata, in una via di fallimento. Dobbiamo tornare indietro da questa strada e vivere come fossimo sempre sotto la minaccia dei bombardamenti, perché non è la sicurezza la vera dimensione della vita, ma l'estrema insicurezza.
Il suo itinerario poetico, pur mostrando una continuità di fondo, presenta evidenti mutamenti. Da dove nasce questa continua ricerca di nuovi percorsi da seguire?
Sono sempre stato attratto dalle opposizioni e in questo amore per gli estremi ho trovato molta sofferenza ma anche il desiderio di esplorare tutto l'arco delle combinazioni possibili dell'esperienza. I cambiamenti sono stati molto forti, ma anche molto naturali. Il primo è avvenuto con L'amore delle parti e Merisi, libri attraverso i quali ho raggiunto una graduale normalizzazione linguistica dopo le sperimentazioni degli anni '70. Poi, a partire dagli anni '90, con Preghiera del Nome, c'è stata una normalizzazione completa del linguaggio e un'estremizzazione dei contenuti e dei temi. Come il corpo umano cambia con l'età, così anche l'espressione del mio linguaggio poetico ha avuto delle trasformazioni evidenti. Comunque i cambiamenti sono stati sempre sorprendenti per me, non li ho mai pilotati né organizzati. Così come in fondo mi sorprese il linguaggio magmatico, neologistico e deformato dei primi due libri, in particolare de L'ostrabismo cara visto che i miei testi precedenti, usciti poi in Summulae, erano molto tradizionali. E' come se allora un vulcano avesse cominciato a sgorgare magma. Ho sempre dato un'enorme priorità all'esperienza sul controllo e il calcolo intellettuale, anche nella sperimentazione. Il mio riferimento più gradito è stato sempre Amelia Rosselli che incarna un tipo di visionarismo che si distacca dallo sperimentalismo inteso come laboratorio linguistico e si lega ad una magmaticità del corpo verbale che erompe dalle sue forme tradizionali.
Quali influenze ha avuto la sua professione di psicanalista sulla sua poesia?
L'influenza non è mai stata della pratica psicanalitica sulla poesia, ma semmai il contrario. Non ci sono mai stati dei travasi, a parte un caso isolato, dal mio lavoro di psicanalista alla poesia. Posso dire che mi sembrano però due pratiche affini in quanto io vedo la psicanalisi come un'arte, dove la dimensione creativa legata all'esperienza è fortissima. Credo che le due esperienze siano analoghe, in quanto entrambe si lasciano alle spalle il sapere e le conoscenze acquisite, per imboccare una via che va al di là di ciò che sappiamo, e in questo spazio ulteriore permettono di arrivare al limite del conoscibile affacciandosi su una voragine, su un abisso.

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