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17 settembre 2019

Intervista ad Andrea Tarabbia su "Madrigale senza suono" (Vincitore Premio Campiello 2019)


Una versione molto ridotta di questa intervista è uscita su “Il Giornale di Vicenza” del 31 agosto 2019. Ho avuto la fortuna di intervistare Andrea Tarabbia in occasione del tour per il Premio Campiello. Premio che è stato vinto dal suo notevole e sorprendente “Madrigale senza suono”.

Di Fabio Giaretta

“Il demone a Beslan”, “Il giardino delle mosche” e “Madrigale senza suono” mostrano come Andrea Tarabbia parta sempre dalla realtà, da qualcosa di davvero accaduto, aggiungendovi “il fittizio per poterla raccontare”. Attraverso la letteratura lo scrittore vuole riempire “le parti cave e oscure del reale”. Ciò che gli interessa però non è la realtà storica in senso stretto, ma quella umana.
“Il demone a Beslan” (Mondadori, 2011) si basa su un tremendo fatto di cronaca, avvenuto in Ossezia nel 2004, quando un gruppo di separatisti ceceni occupò una scuola per tre giorni. L’occupazione si risolse nella strage di 334 persone, tra cui molti bambini, a seguito dell’irruzione della polizia. Tarabbia sceglie di far raccontare questa storia a Marat Bazarev, unico membro del commando ceceno sopravvissuto, che scrive una sorta di confessione mentre si trova in un carcere di massima sicurezza a Mosca. Si tratta di un personaggio inventato, ma verosimile, perché effettivamente uno degli attentatori, Nurpaša Kulaev, sopravvisse e fu condannato all’ergastolo. Ma questa voce, durante la narrazione, è perturbata da altre voci, quella di Petja, un bambino morto nella scuola, e quella di Ivan, un vecchio deforme che vede dall’esterno dell’edificio quello che sta succedendo. Entrambi altro non sono che fantasmi della mente di Marat.
Nel successivo “Il giardino delle mosche” (Ponte alle Grazie, 2015), finalista al Premio Campiello, Tarabbia fa ancora i conti con una storia vera e con due temi presenti in tutte le sue opere, il male e la morte. Qui si misura ancora con una vicenda che ha a che fare con la Russia, ovvero quella di Andrej Čikatilo, il mostro di Rostov, che uccise almeno 56 persone infliggendo loro indicibili mutilazioni. E decide di dargli la voce e di fargli raccontare la sua terribile storia così come aveva fatto Marat ne “Il demone a Beslan”. A questa voce monologante se ne aggiungono però altre come quella fantasmatica del fratello Stepan Romanovič, morto in circostanze tragiche e oscure quand’era ancora piccolo, o quella dell’ispettore, il dottor Kostoev, che raccoglie la testimonianza di Čikatilo. Ancora una volta, insomma, un flusso di voci e di punti di vista.
Arriviamo così a “Madrigale senza suono” (Bollati Boringhieri, 2019), vincitore dell'ultima edizione del Premio Campiello, in cui la dimensione polifonica de “Il demone a Beslan” e “Il giardino delle mosche” viene portata alle estreme conseguenze. Il protagonista principale è il geniale e innovativo compositore di madrigali Carlo Gesualdo, nato a Venosa nel 1566 e morto a Gesualdo nel 1613. Se oggi la sua figura è ampiamente conosciuta lo dobbiamo alla riscoperta novecentesca da parte di un altro grande compositore, Igor Stravinskij, che gli dedicò il “Monumentum pro Gesualdo di Venosa ad CD annum, tre madrigali ricomposti per strumenti”. Partendo da questi elementi, Andrea Tarabbia immagina che Stravinskij abbia ritrovato un misterioso resoconto sulla vita di Gesualdo scritto da un suo fedele servitore, il nano deforme Gioachino Ardytti. Così alla voce di Gioachino, che narra una biografia intima e privata del principe, si aggiungono quella di Stravinskij, che via via commenta quello che sta leggendo, quella di Glenn Watkins, grandissimo studioso americano di Gesualdo che nel finale del libro dà la sua interpretazione del manoscritto ritrovato, quella di Gesualdo stesso e di un coro di personaggi secondari che attraversano la narrazione.
Ed è su questo notevole romanzo, dai toni cupi e gotici, al quale però non mancano momenti comici e buffi, e che gioca in modo molto intelligente e raffinato con la storia e la tradizione letteraria, che si concentra la seguente intervista ad Andrea Tarabbia. Come ci ha raccontato in una delle risposte più articolate, accanto ai tre libri che abbiamo citato, vanno posti anche due importanti saggi come “La buona morte” (Manni, 2014) e “Il peso del legno” (NNeditore, 2018). Il primo è un reportage sull’eutanasia in Italia intervallato da squarci biografici che si soffermano sulla malattia del nonno, esperienza per lui determinante sia come uomo, sia come scrittore. Ne “Il peso del legno” invece Tarabbia si interroga, cercandone il senso profondo, sul racconto della crocifissione di Cristo contenuto nei quattro Vangeli e sui personaggi che lo attraversano. Un libro questo fondamentale per capire “Madrigale senza suono” con il quale condivide un’ampia parte di bibliografia nonché molti temi come il rapporto padri-figli, la colpa, il dolore, la morte.

Che effetto le ha fatto vincere il Premio Campiello dopo averlo sfiorato nel 2016 cono "Il giardino delle mosche?
Guardi, sono ancora abbastanza frastornato. Per tutta la giornata della finale ho avuto delle sensazioni molto positive, ma quando è stato pronunciato il mio nome sul palco della Fenice non ci volevo credere. Sono molto contento, ma non sono bravo a fare discorsi intorno all'"effetto che fa": mi vengono solo cose banali da dire.

Come nasce il suo interesse per Gesualdo da Venosa e la decisione di metterlo al centro di un suo romanzo?
Nasce per caso: prima di vedere un brutto documentario di Werner Herzog a lui dedicato, non lo conoscevo. In seguito, ho iniziato a studiarlo e ad ascoltarlo perché la storia di questo genio musicale che era stato in grado di commettere un omicidio brutale mi ha molto affascinato: sentivo il tema di fondo – se dall’orrore può nascere la bellezza – molto mio.

Come ha lavorato per ricostruire la figura di Gesualdo? E quella di Stravinskij?
L’arrivo di Stravinskij è stato fondamentale per il romanzo, perché mi ha permesso di non fare un semplice romanzo storico – in cui si ricostruire la vita e l’opera del principe – ma un libro che mette in relazione due secoli, due geni e due modi di vedere la musica e il mondo. Gesualdo e Stravinskij sono, per certi versi, l’uno l’opposto dell’altro (uno è istintivo, l’altro è razionale; uno è un autodidatta, l’altro è uno studioso e così via), ma in nome di un comune concetto della musica “dialogano” a distanza, sono l’uno il padre artistico dell’altro. Per costruire questo rapporto li ho dovuti studiare a lungo, leggendo tutto quello che trovavo. La svolta è arrivata quando ho trovato, in alcuni libri di Stravinskij, dei passi in cui parla di Gesualdo e dell’ammirazione che prova per lui. Quei passi sono la base di molto di quello che ho scritto.

Nella vicenda di Gesualdo è difficile capire dove finisca la storia ed inizino le molte leggende che avvolgono la sua figura. Come si è documentato? Come ha cercato di districarsi tra verità storica e leggenda?
È l’aspetto più complesso e insieme più affascinante della figura di Gesualdo: ormai è difficilissimo stabilire che cosa sia davvero accaduto in certi momenti della vita del principe. Tutto è ammantato di leggenda, da secoli si inventano fiabe nere sulla sua condotta, tanto che perfino certi studiosi hanno fatto confusione prendendo per veri certi avvenimenti che sono frutto di leggende popolari. Questo, da un certo punto di vista, per un narratore è una manna dal cielo, perché significa che la storia di cui si sta occupando è viva, ed è stimolante giocare narrativamente su ciò che è vero e ciò che non lo è (il rapporto falso/vero è uno dei temi fondamentali del romanzo): ma proprio per poter mettere in piedi questo gioco è necessario avere perfettamente chiaro che cosa sia storia e che cosa sia leggenda. Sono stato aiutato parecchio da una persona, Giuseppe Mastrominico: Giuseppe, gesualdino e gesualdiano, è probabilmente la persona al mondo che conosce meglio il principe, ha condotto studi storici e filologici su di lui, abita a 50 metri dal castello dove Gesualdo visse i suoi ultimi anni e morì. È stato la mia guida fondamentale, insieme a musicologi e musicisti con cui mi sono confrontato.

Il fatto più noto della vita di Gesualdo è l’assassinio della moglie fedifraga Maria d’Avalos. Lei nel libro suggerisce l’idea che Gesualdo sia quasi stato costretto ad ucciderla per seguire le leggi e le usanze del tempo, discostandosi dall’idea che fosse un demonio. E in ogni caso dice che se fu un Lucifero, fu un Lucifero portatore di bellezza…
La frase su Lucifero è di Stravinskij, io l’ho soltanto ripresa e riusata. Per quanto riguarda l’omicidio, la questione è ancora aperta: Gesualdo voleva uccidere Maria? Secondo certi miti sì, poiché era un demonio. Ancora: Gesualdo amava Maria? Forse no, dopotutto era sua cugina e il matrimonio era combinato. Ma non c’è nulla che confermi queste illazioni. La sola cosa certa è che egli fu “costretto” a uccidere per salvare il casato e perché le convenzioni del tempo glielo imposero. Ma se uccise con soddisfazione o con disperazione è una questione che nessuno risolverà mai. Per parte mia, dovendo fare un romanzo, ho deciso di percorrere una strada che rendeva il personaggio del principe, se possibile, ancora più tragico di quello che è.

“Il demone a Beslan”, “Il giardino delle mosche” e “Madrigale senza suono” si possono considerare una trilogia?
Più che di trilogia – che è un termine improprio, visto che nei tre romanzi non sono contigui per ambiente, personaggi e tempi, parlerei di triade. Mi perdoni se la risposta sarà un po’ lunga, ma mi dà l’occasione per fare un po’ il punto: quando, più di dieci anni fa, cominciai a immaginare quello che sarebbe diventato Il demone a Beslan, avevo in mente di raccontare la storia che ho finito per raccontare e, soprattutto, avevo in mente il modo attraverso cui volevo raccontarla. Ma, per così dire, mi fermavo lì, al libro che mi stava nascendo dalle mani.
Tra il Demone e il Giardino – che è la seconda tappa di questo piccolo viaggio – ho curato la traduzione di Diavoleide di Michail Bulgakov e ho pubblicato La buona morte, un reportage sull’eutanasia. La buona morte è stato scritto in contemporanea con il Giardino: vale a dire che, durante la stesura del romanzo, ho preso una pausa e ho scritto il reportage. Le bibliografie di questi due libri, in modo solo apparentemente sorprendente, coincidono per larghi tratti. Come è possibile?, si chiederà forse qualcuno. È possibile: dopotutto, al di là di quel che si può dire intorno a questi due libri, si tratta di opere che hanno a che vedere in modo piuttosto diretto con l’idea di morte. Ma non solo: La buona morte contiene una piccola parte autobiografica e una serie di riflessioni sulla letteratura che fanno di questo libro il laboratorio per così dire pubblico del Giardino delle mosche. Ecco, forse tutto nasce proprio durante la pausa che, quattro o cinque anni fa, mi presi dalla scrittura del Giardino per realizzare questo reportage: scrivendo di eutanasia, mi resi improvvisamente conto che non stavo, dopotutto, scrivendo un libro diverso dal Giardino, e che i temi e gli argomenti e la voce che stavo usando per La buona morte erano fratelli dei temi, degli argomenti e della voce che avevo usato nei romanzi. Nella Buona morte facevo, per così dire a carte scoperte e senza troppi artifici narrativi, quello che avevo fatto nei due romanzi: usavo tutta la letteratura di cui ero capace per affrontare la morte, il dolore (mio e degli altri) e, se rileggo dei passi di quel reportage, vi trovo quasi letteralmente gli appunti che nei mesi precedenti avevo preso per la mia storia di Čikatilo. Insomma: nella Buona morte, per chi lo sa leggere, c’è il making of del Giardino.
Lo stesso meccanismo si è ripetuto questa volta: quando, nel 2014, cominciai a raccogliere i materiali e a immaginare Madrigale senza suono – ed ero ormai consapevole che almeno tre delle mie opere (le più importanti) erano parenti stretti e, in qualche modo, sapevo che il romanzo che avrei scritto doveva ampliare questa famiglia – non avevo in mente di concepire e scrivere Il peso del legno. Invece, di nuovo, la stesura di Madrigale, a un certo punto, si è interrotta, e dalla penna è uscito un saggio narrativo, fortemente autobiografico e colmo di riflessioni sulla letteratura e sullo scrivere. Nel Peso del legno, come mi era già accaduto, c’è il laboratorio del libro che verrà: sotto il cappello di una ricerca che è letteraria, biografica e di senso, io racconto come è nato Madrigale, e lo racconto mentre lo sto ancora scrivendo.
Va da sé, poi, che i tre romanzi che, come dicevo, compongono una triade ma non una trilogia, dialoghino incessantemente tra loro: è evidente che hanno temi affini e voci affini; soprattutto, è evidente che sono costruiti su voci narranti che, ciascuna a suo modo, vengono “disturbate”, su punti di vista incerti e fallibili, su riscritture e rimuginamenti. Insomma, i tre romanzi sono fratelli, ma ci sono almeno due cugini che fanno il controcanto, e lo fanno mettendo in scena l’autore, che per forza di cose nei romanzi rimane nascosto.
A chi mi ha chiesto e mi chiede perché il Giardino o Madrigale siano scritti nel modo in cui sono scritti posso dire che nessuno dei miei libri è un’opera sola, isolata, ma è qualcosa che dialoga con il libro che l’ha preceduta e con quello che si è messo a nascere mentre l’opera di cui parlo veniva scritta. Nella mia visione, benché sia perfettamente consapevole che tutti i miei libri sono opere che si possono leggere in modo indipendente, leggere solo il Giardino o solo il Demone significa vedere soltanto una parte del problema, non la sua totalità. I libri sono tanti, l’opera è una.

Come mai nei suoi libri sente sempre il bisogno di partire dalla storia?
A questa domanda c’è una risposta stupida e una più intelligente. Quella stupida è che le biografie dei personaggi storici mi consentono di non dover inventare una trama. In verità, detta più seriamente, come lettore mi accorgo che una storia non completamente inventata ma che ha una base storica mi piace di più. “Moby Dick” ad esempio, è certamente un romanzo di fantasia però è stato scritto dopo tre anni di navigazione in giro per il globo da parte di Melville. Quindi conosce le cose che racconta. Per me è fondamentale che ci sia un gancio con la realtà. A me sembra che nella storia e nella vita reale abbiamo un sacco di esempi di vite che sono in qualche modo paradigmatiche. Trovo giusto da parte di chi scrive portare alla luce queste storie, come se fosse una specie di compito. Parte del mio lavoro consiste nel pescare dal magma delle storie del passato qualcuno che ha fatto delle cose che sono dei paradigmi di come siamo fatti noi, e dargli un vestito letterario. Probabilmente questo mi viene da Dostoevskij, che prendeva spunto per le sue storie da fatti di cronaca, li rielaborava, li rimasticava, li stravolgeva perfino: ma si può trovare un articolo di un giornale dell'epoca con dentro la notizia di qualcuno che, per esempio, ha uscciso una vecchia con una scure.

Cosa l’ha portata a scegliere come narratore principale Gioachino, il nano deforme che scrive la cronaca sulla vita di Carlo Gesualdo, ritrovata da Stravinskij?
L’idea di dover avere un narratore interno alla storia ma che fosse a suo modo onnisciente e potesse andare ovunque, perfino nella testa del protagonista: avevo bisogno di una sorta di demonietto inafferrabile che facesse da controcanto al principe. E poi, per continuare il discorso cominciato nella risposta precedente: nel Demone ho un narratore in prima persona che racconta di sé ma viene contraddetto da altre due voci; nel Giardino ho una voce monologante che viene per così dire “ribaltata” nella parte finale del romanzo; qui dovevo trovare un terzo modo di raccontare, ed è nato questo narratore storto che osserva e racconta in terza la vita del protagonista.

Il romanzo in fondo avrebbe potuto limitarsi alla cronaca di Gioachino sulla vita di Gesualdo. Lei però ha inserito anche Stravinskij come altra voce narrante del libro. Per quale ragione?
In parte credo di aver già risposto a questa domanda poco sopra. Non mi interessa fare romanzi storici: mi interessa fare romanzi in cui dialogano mondi e in cui una voce metta in discussione l’altra.

Stravinskij, pur essendo respinto da alcuni aspetti della vita di Gesualdo, lo sente come un padre. Il suo in effetti può essere definito come un romanzo che, in un certo senso, parla di padri e di figli…
Senza dubbio. Qualcuno ha notato una cosa che per me era molto importante si notasse: per una volta, nella storia di Gesualdo pesano di più le morti dei figli che quella della moglie. All’inizio del romanzo arriva la notizia della scomparsa del primogenito Emanuele – colui che dovrebbe, per successione, prendere in mano il regno e continuare il cognome: capito che non avrà eredi maschi, Gesualdo si chiude nel suo studio e si lascia morire d’inedia. Ci mette una ventina di giorni, durante i quali Gioachino scrive la sua cronaca. Ma c’è un altro figlio che muore e che cambia le sorti del principe: il piccolo Alfonsino, in seguito alla cui morte Gesualdo comporrà gli unici Canti sacri e Responsori della sua produzione. Insomma: la scomparsa di un figlio porta la morte, la scomparsa dell’altro cambia la musica. A me questi due aspetti parevano fondamentali.
Poi c’è l’altra questione legata alla paternità: il rapporto Gesualdo – Stravinskij. Stravinskij sente il principe come un “padre”, ma è combattuto. Si chiede continuamente: può un assassino, per quanto di genio, essere un padre, essere mio padre?

Stravinskij dice che la somiglianza tra lui e Gesualdo sta nel cercare qualcosa di mai udito attingendo a piene mani da ciò che è già stato udito. Non esiste una creazione totalmente nuova che non poggi su qualcosa. Questa frase, valida per qualsiasi creazione artistica e ben lontana dall’idea del genio artistico di stampo romantico che crea dal nulla, rispecchia la sua visione?
Sì, è una cosa che pensavo fosse ovvia da dire, invece sto notando che molte persone hanno ancora un’idea romantica (vale a dire vecchia di due secoli) della creazione artistica. C’è ancora il mito dell’artista creatore, tutto preso da un certo furore mistico e che crea in una stanza buia, sudando e spasimando e provando emozioni che solo lui sa provare. Tutto questo è, probabilmente e mestamente, figlio della dittatura delle emozioni che impera oggi. Ma nessuno, e dico nessuno, ha mai creato in quel modo: non si crea sulle nuvole, ma in una bottega – tant’è vero che anche gli autori romantici scrivevano e riscrivevano le loro opere. Verrebbe da chiedersi: ma come? Eri tutto preso dall’afflato divino, dall’Ispirazione, e hai fatto tre versioni del poema, l’hai riempito di correzioni, l’hai fatto leggere agli amici prima di pubblicarlo? Si crea sulla base di un’idea, di una intuizione: ma poi c’è il lavoro, la riflessione, la citazione, il rapporto con la tradizione (padri e figli e di nuovo, a ben vedere). Niente nasce dal niente. Chi ha un’idea romantica del genio vive in realtà fuori dal tempo: è come se girasse in carrozza o non avesse l’acqua corrente in cucina.

Varie volte nel corso del romanzo Stravinskij dubita dell’attendibilità della voce di Gioachino definendo la sua cronaca un apocrifo e arrivando addirittura ad ipotizzare che Gioachino altro non sia che una proiezione e una maschera dietro la quale si nasconde lo stesso Carlo.  Questa riflessione sull’attendibilità della voce narrante è davvero interessante…
…ed è uno dei temi fondamentali non solo del romanzo, ma del lavoro narrativo che ho fatto fin qui. Nessuna delle mie voci narranti è certa e pienamente attendibile, tutto è sempre messo in dubbio e passibile di contraddizione. Non mi interessa raccontare un evento, ma tutte le possibili versioni di quell’evento. Qui ho giocato sul topos del “manoscritto ritrovato” – che è così fondativo per la letteratura italiana – e il gioco è stato appunto metterlo costantemente in discussione.

In un passaggio del romanzo Carlo invidia Tasso per il suo dolore e per la sua pena di vivere e dopo la morte di Alfonsino dice che questo gli permetterà di comporre come mai prima. L’arte secondo lei è figlia del dolore e del tormento?
Non necessariamente. C’è, credo, una matrice oscura nella voglia di raccontare e raccontarsi, ma non è una regola. Nel caso di Gesualdo mi pareva evidente che ci fosse, ma mi pare evidente anche un’altra cosa – la dice Stravinskij a un certo punto: esiste una felicità anche dentro la creazione più cupa, c’è una gioia anche nell’orrore. Questo è fondamentale. Nello Sciascia più nero e sconsolato si percepisce la felicità, il piacere con cui ha scritto. In questa relazione, in questa felicità che ci può essere anche nella maggiore cupezza, c’è il segreto della grande letteratura.

Nei suoi libri, e in quest’ultimo in modo rilevante, si nota una forte insistenza sugli aspetti più terragni, più bassi, più corporei dell’esistenza. In particolare il corpo umano è sempre minuziosamente indagato e descritto, anche negli aspetti più ripugnanti. Come mai?
Perché siamo fatti di corpo, di liquidi, di tensioni, di nervi. Li portiamo ovunque e sono il filtro attraverso cui guardiamo il mondo e lo abitiamo. I bisogni, i dolori ma anche le gioie del corpo sono la prima cosa, sempre: se ci stanno dando il Nobel ma dobbiamo andare in bagno, la nostra preoccupazione fondamentale sarà trovare una toilette, non certo quella di salutare il re di Svezia secondo il protocollo. Descrivere i corpi è dire chi siamo e come stiamo. Tutto qui.

Il tema del male, presente in tutti i suoi libri, è strettamente connaturato qui con quello della bellezza. Cosa la affascina di questo tema? Sembra tra l’altro che il periodo più fulgido e creativo di Gesualdo cominci proprio dopo l’assassinio della prima moglie…
Non saprei spiegarlo, ma è così da sempre. Non bisogna però cadere nell’errore che hanno fatto molti a proposito di Gesualdo, vale a dire di pensare che l’omicidio e forse il senso di colpa siano stati il motore per la sua musica. Non abbiamo elementi per poterlo dire con certezza.

Il libro ha aspetti fortemente gotici, soprattutto attraverso la vicenda di Ignazio tenuto come una bestia nei sotterranei del castello e quella della serva amante Aurelia, che con Polissena incarna una sorta di strega. Per quale ragione ha dato un rilievo così ampio agli aspetti gotici?
Perché mi divertiva l’idea delle segrete e di un figlio strappato dal ventre di Maria morente: è una rielaborazione di una delle tante leggende su Carlo e Maria. Qualcuno scrisse che lei era incinta dell’amante quando morì; altri dissero che il vero motivo dell’assassinio fu che lei aveva già partorito un bambino che somigliava a Fabrizio Carafa e che, dopo la sua morte, il bimbo fu fatto morire di stenti da Gesualdo. Niente di questo è vero, ma come dicevo prima scrivere un romanzo di questo tipo è tenere conto dei dati storici e di quelli leggendari e trovare il modo di farli convivere. Ecco, la convivenza che ho trovato è quella di Ignazio e della strana trinità che compone insieme a Gioachino e al principe Carlo.

Ignazio, mostruosa creatura reclusa nei sotterranei del castello, è costruito a partire dalla leggenda secondo la quale Maria, al momento dell’assassinio, era incinta. Cosa voleva rappresentare con questo personaggio?  Può essere visto come il simbolo dei mostri che abitano l’inconscio di Carlo Gesualdo? O per lei aveva qualche altro valore simbolico?
È la colpa, ma anche la malattia (meglio: l’ipocondria) di Carlo, la sua ossessione. Il principe, tramite Gioachino, se ne prende cura. Ma Ignazio è un personaggio talmente vago che il lettore può riempirlo con ciò che crede. L’importante è che esista e che sia laggiù, con il suo campanellino alla caviglia e il suo corpo non completamente formato.

Aurelia è un personaggio davvero esistito o l’ha inventato? E Maria Polissena? Con loro entra nel romanzo il tema delle streghe che sarà centrale nel Cinquecento con la Controriforma…
Sono esistite entrambe. La loro storia è vera e documentata. Io l’ho soltanto romanzata.

A parte la musica, quella di Carlo è la vita di uno sconfitto, non a caso morirà senza eredi, nonostante abbia fatto tutto quello che poteva per continuare la dinastia, in quanto i suoi due figli maschi, Emanuele e Alfonsino moriranno entrambi prima di lui.
I grandi momenti della vita di Carlo non dipendono da lui, mai: è in seminario e viene richiamato (controvoglia?) perché muore suo fratello e dunque deve imparare ad amministrare il regno; fa due matrimoni combinati (il primo finisce come sappiamo, il secondo, con una d’Este è solo per opportunità politica) che tra l’altro non è mai lui a combinare, ma qualcuno che decide in sua vece; gli muoiono due figli; l’unica vera, autentica decisione che prende, a parte quella della musica, è lasciarsi morire.

Tanto lei è prodigo di descrizioni e di attenzioni per Maria d’Avalos quanto è scarno e asciutto per quanto riguarda la seconda moglie di Gesualdo, Leonora d’Este… Con questo voleva accentuare l’insignificanza di questa donna e il suo ruolo per così dire marginale nella vita di Gesualdo?
Sì. Maria era famosa per essere la donna più bella di Napoli: pare fosse tanto bella che su di lei sono nate storie poco edificanti anche dopo che era morta. Non è detto che Carlo non l’amasse, e in ogni caso la storia con lei è uno dei centri nevralgici della sua vita. Di Leonora d’Este importa poco sia a Carlo che a me: di fatto contano di più il figlio che lei e Carlo ebbero (Alfonsino) e il fatto che, grazie al matrimonio, si aprirono per il principe, finché non se ne stufò, le porte di Ferrara – città allora sulla via della decadenza ma che era ancora una delle capitali musicali d’Europa.

Nel libro i rapporti tra il principe e le donne si riducono spesso a una dimensione sessuale per Maria e Aurelia o assenza con Leonora. Perché ha dato questo peso così rilevante a questa dimensione?
Per la questione dei corpi di cui sopra, perché così traspare dalle lettere e per far vedere come una delle principali caratteristiche di Carlo Gesualdo è la bulimia: a tavola, al liuto, alla spinetta e nel letto. Non credo però che i rapporti tra il mio principe e le sue donne si limitino alla sfera sessuale: c’è desiderio, anche, e seduzione, e una complicità – con Maria finché le cose non precipitano e con Aurelia finché lei non commette degli errori – che esula dalla questione dei corpi.

Nello scrivere questo romanzo, quali problemi stilistici si è posto?
Uno fondamentale: quale lingua deve usare Gioachino? L’italiano del Seicento? Diventerebbe un libro illeggibile e crollerebbe miseramente tutto il discorso sul testo apocrifo o meno. Ho optato – grazie allo stratagemma di Stravinskij che legge il testo in una traduzione contemporanea – per una lingua con echi e costrutti del passato ma fruibile dai lettori di oggi.

Carlo Gesualdo si lamenta del fatto che il numero delle note sia finito mentre lui vorrebbe una musica infinita. Per Stravinskij invece è bene che ci siano dei limiti che permettono comunque possibilità vastissime. Tarabbia a quale visione si sente più vicino?
È un altro modo di riproporre la vecchia diatriba romantici/contemporanei di cui sopra. Non si scrive al buio, ma si traccia il percorso dentro cui si camminerà.

Dentro questo libro si nota un dialogo continuo con la nostra tradizione, per il romanzo epistolare ad esempio “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” di Foscolo, per quanto riguarda invece il manoscritto ritrovato viene in mente Manzoni e “I promessi sposi”. Sono due riferimenti a cui voleva fare esplicito riferimento? A quali altri modelli si è ispirato per questo libro?
Sì, più Manzoni che Foscolo, in realtà. In Madrigale senza suono ci sono echi di Bulgakov, Kazantzakis, Malaparte, Volponi, Melville, Shakespeare (in particolare Macbeth e La tempesta), Herling (Madrigale funebre, uno dei suoi ultimi racconti, è dedicato a Gesualdo), Bruno (De infinito universo e mondi in particolare), Canetti (il cognome di Gioachino, Ardytti, è una storpiatura del cognome di sua madre), Testori, Mann (il Dottor Faustus, naturalmente), Andreev, Bufalino, Sebald, Starobinski, Dostoevskij, Hugo (L’uomo che ride), Freud, Balzac, Mari, Pomilio (Il quinto evangelio), Yourcenar (L’opera al nero), Eco, Casanova e altri, ma in misura minore.

Nel libro, soprattutto nella parte legata a Stravinskij compaiono degli strani animali: una scimmia, una foca e poi un misterioso cane che li porta alla libreria antiquaria dove Stravinsky acquisterà il resoconto segreto sulla vita di Carlo Gesualdo. Quale ruolo hanno queste inserzioni animali?
C’è un piccolo bestiario in ogni mio romanzo: nel Demone a Beslan erano scarafaggi e scolopendre e un gattino, nel Giardino delle mosche erano le tortore. Qui comincio con una scimmia e una foca: sono cose realmente accadute a Stravinskij nella sua villa di Los Angeles. Poi ci sono un cagnetto nero (evidente riferimento al Dottor Faustus) e cavalli, lupi e un gabbiano (in una scena che, mesi dopo aver pubblicato il libro, ho improvvisamente capito essere un rifacimento della scena con la tortora nel Giardino). Mi piace che le mie scene vengano a volte raccontate dall’occhio inconsapevole e metaforico degli animali.

Non è la prima volta che la musica ha un ruolo centrale in un suo romanzo. Era già successo con “Marialuce” Da dove deriva questa fascinazione per la musica?
Non saprei. Forse dal fatto che un po’ suonicchio, ma in realtà non volevo fare, dopo Marialuce, un altro romanzo sulla musica: è stato Gesualdo a imporsi.

Gesualdo è un credente eppure la sua religiosità è qualcosa di codificato dalle regole del tempo, accettata nella sua rigida ritualità. La sua religiosità, per quanto tormentata, sembra mancare di profondità. È d’accordo con questa visione?
Non saprei. Non sono in grado di giudicare la religiosità degli altri, soprattutto se sono morti da quattro secoli. Pare che le opere penitenziali che commissionò fossero sincere, così come l’intento con cui fece edificare la chiesa di Santa Maria delle grazie o compose i canti sacri. Ma più in là non oso spingermi.

Nell’ultima parte della sua vita sembra che Carlo entri in una fase di pentimento e di espiazione, non a caso commissiona anche la famosa “La pala del perdono”. Che cosa vuole espiare secondo lei? Per cosa si sentiva in colpa? Era sincero a suo avviso il suo pentimento?
Non so se sia corretto dire così: le sue prime composizioni, quando ha meno di vent’anni e non ha ancora ucciso, sono già su testi penitenziali: ovviamente, questo fa parte di una tradizione a cui lui si conforma, ma nulla ci vieta di pensare che non fosse sincero. È un uomo che fa tutto ciò che il suo tempo impone (preghiera, pentimento e omicidio compresi), ma sarebbe superficiale sostenere che faccia tutto questo con leggerezza “perché è così che si fa”.

Ne “La buona morte” lei racconta la malattia di suo nonno e di come questo evento sia stato decisivo per la sua vita. In che modo questo fatto ha a che fare con la sua scrittura?
Due sono i libri in cui io provo ad andare alla radice del lavoro che faccio: “La buona morte” e “Il peso del legno" -, quest’ultimo tra l’altro è un libro di bilancio perché scritto quando ho compiuto quarant’anni. Credo che se mio nonno non si fosse ammalato, io non avrei mai pensato di scrivere nella mia vita. Lui si è ammalato nel 1990, quando avevo 12 anni, ed è morto nel 2005. È rimasto paralizzato nella parte destra del corpo e non ha più parlato. Questo per me ha rappresentato un prima e un dopo: il nonno prima c’è, poi non c’è più nel modo in cui io l’avevo conosciuto. Ho questa immagine di me che va a trovarlo a casa sua quando avevo 13, 14 anni e mentre lo guardo in silenzio cerco di entrare nella sua testa e guardare me con i suoi occhi: chissà cosa pensa di me lui che ora ha questo sasso nella testa, chissà come mi vede. Ecco, l’idea di mettermi nella testa di un altro malato viene da lì. Tutte le volte che mi viene chiesto da dove arrivano le mie storie, da dove arrivi la mia attrazione per il male, la malattia, il dolore, tutte le volte mi viene in mente questa scena.
               
Dopo “Madrigale senza suono” ha già in mente quale sarà il prossimo libro a cui lavorerà? Se sì può dirci qualcosa?
Non ho idee, ma per me è normale. Tra un libro e l’altro metto sempre un vuoto di uno o due anni. Non è una cosa che scelgo di fare: ho soltanto capito e accettato che, dopo gli anni di lavoro che mi costa un romanzo, ho bisogno di non scrivere per un bel po’.

Come sta secondo lei la letteratura italiana oggi?
Nonostante quello che si dice, la letteratura italiana contemporanea sta bene anche se forse non lo sa. Il problema è che si portano sugli altari le persone sbagliate. Esistono grandissimi scrittori di cui si parla pochissimo. Penso che Filippo Tuena, Laura Pariani e Angela Bubba (scrittrice di cui probabilmente pochissimi hanno sentito parlare) siano tre autori straordinari.



ANDREA TARABBIA è nato a Saronno nel 1978. Ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi "La calligrafia come arte della guerra" (2010), "Il demone a Beslan" (2011), "Il giardino delle mosche" (2015; Premio Selezione Campiello 2016 e Premio Manzoni Romanzo Storico 2016) e i saggi "La buona morte" (2014) e "Il peso del legno" (2018). Nel 2012 ha curato e tradotto "Diavoleide "Di Michail Bulgakov. "Madrigale senza suono", uscito nel 2019 per Bollati Boringhieri, ha vinto l'ultima edizione del Premio Campiello. Vive a Bologna.




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