Pubblico l'intervista che ho fatto a Mariapia Veladiano in occasione dell'uscita del nuovo romanzo "Il tempo è un dio breve" e uscita sul "Giornale di Vicenza" dell'11 ottobre.
Di Fabio Giaretta
Nonostante si
sia affacciata tardi sulla scena letteraria italiana, Mariapia Veladiano ha
subito lasciato il segno. "La vita accanto",
romanzo d’esordio della scrittrice vicentina, classe 1960, laureata in
filosofia e teologia, preside di un Istituto
Comprensivo di Rovereto, è stato infatti un vero e proprio caso
editoriale. Vincitore del Premio Calvino 2010 e del Premio Cortina d’Ampezzo
2011, secondo al Premio Strega 2011. Circa 75000 copie vendute. Otto ristampe,
una nuova edizione all’interno della collana “Numeri primi” dell’Einaudi che
comprende i libri più venduti e amati. Tradotto in inglese, francese, spagnolo
e coreano. I diritti cinematografici acquistati da un grande regista come Marco
Bellocchio. Comprensibile che, dopo un’opera prima di così grande successo, ci
sia molta attesa e curiosità per il suo secondo libro, Il tempo è un dio breve, che uscirà il 23 ottobre, a quasi due anni
dal precedente, sempre per Einaudi.
“Il
tempo è un dio breve - ci ha raccontato in anteprima la scrittrice - parla di una donna giovane, teologa, di nome
Ildegarda, che viene lasciata dal marito. Ha un bambino piccolo e si interroga
sul male che colpisce questo bambino, nella forma del dolore per l’abbandono
del padre, di una malattia che lo minaccia. Dialoga con Dio ininterrottamente e
lo chiama alle sue responsabilità. E insieme sente che in gioco c’è quel che
crediamo, chi siamo noi, ciò in cui speriamo. Ci sarà un incontro importante
nella sua vita. Qualcuno che la può accompagnare in questa ricerca”.
È vero che ha
cominciato a scrivere il suo nuovo romanzo in contemporanea con “La vita
accanto”, circa 12 anni fa? Come mai i suoi libri hanno una gestazione così
lunga?
Sì. Cominciato nel 2000, finita la prima
stesura nel 2005. Poi lasciato lì, finché scrivevo “La vita accanto”. Poi
ripreso e riscritto tante e tante volte. Non aver fretta di pubblicare permette
di prendere le distanze da quel che si scrive e di vederne un po’ meglio le
cadute, i difetti. In realtà comunque la ragione principale per cui ho bisogno
di tanto tempo per scrivere è che cerco il suono delle parole. Le prime
narrazioni a noi arrivano prima di aver imparato a leggere, attraverso la voce
di una mamma, un nonno. Mi sembra che una narrazione sia fatta di storia e
suono e il suono delle parole deve essere un sottofondo che accompagna la
storia e mai le parole devono far, come dire, inciampare la lettura. Per cui si
legge e rilegge e si cambiano le parole finché questo suono ci sembra
abbastanza armonioso. Poi non si è mai contenti, ma ci provo, ecco.
Ci sono delle
continuità tematiche rispetto a “La vita accanto”?
Certo che sì. È l’interrogarsi sul male
del mondo e sul nostro poterlo combattere.
Qual è il senso
di questo titolo così suggestivo?
Il romanzo è nato con questo titolo e
del resto tutti i miei scritti nascono con il titolo già scritto. Quando
lavoravo per La voce dei Berici mi
prendevano in giro perché avevo per gli articoli la “cartella dei titoli”.
Titoli che mi sembravano interessanti e che mettevo da parte per articoli che
non avevo ancora immaginato di scrivere. “Il tempo è un dio breve” dice che la
nostra vita è breve, comunque breve anche se arriviamo a cento anni, ma è nello
stesso tempo il nostro essere Dio. Il divino che abbiamo.
Sarà ambientato
sempre a Vicenza o questa volta ha cambiato luoghi e ambienti?
No, è ambientato in parte nella campagna
lombarda e in parte nelle splendide montagne dell’Alto Adige. Un luogo di neve
e di incanti, dove il dialogo con il divino è quasi naturale.
La protagonista
è una teologa come lei. Sarà un romanzo più autobiografico del precedente? Che
peso ha la teologia in questo libro e in che modo l’ha usata?
Il precedente era tremendamente
autobiografico. Completamente, nei sentimenti e nelle emozioni raccontate. La
storia no, anche se si parlava di Vicenza, dove io ho vissuto. Questo lo è meno, perché non c’è Vicenza,
perché ha una voluta dimensione di irrealtà, più dell’altro. Certo che poi si
incontrano situazioni comuni, in cui un po’ ci si ritrova in tanti: un marito,
un figlio, un chiedersi cosa sia la vita, la fede, il male. Ma credo che se uno
scrittore vuol fare un libro autobiografico sia tenuto a dichiararlo con
chiarezza e a chiamarlo “autobiografia”, oppure “storia della mia famiglia”,
per dire. Forse poi è vero che è la nostra vita, il nostro sentire a filtrare
la narrazione e i personaggi. Autobiografia dei sentimenti, certo. Ma le storie
no. La teologia entra nel libro nella dimensione di un interrogare che non può
fermarsi. Un rapporto con Dio che c’è, lo si sente come si sente che c’è un
amore.
Ne “La vita
accanto” uno degli elementi che colpiva era il suo stile: sorvegliatissimo,
raffinato, preciso e nello stesso tempo molto evocativo. Lo stile che ha usato
nel nuovo libro è lo stesso o è cambiato qualcosa?
Lo diranno i lettori questo. Io ho
cercato in ogni modo una scrittura sorvegliata. È la mia piccola lotta, quella
che sempre conducevo anche a scuola, contro la sciatteria del linguaggio che
minaccia la nostra possibilità di raccontarci e di capire. E devasta la
bellezza del narrare.
Com’è cambiata
la sua vita dopo l’uscita de “La vita accanto”?
Un uragano. È arrivato un uragano.
Tantissime relazioni, restituzioni di lettori sotto la forma di lettere, mail,
incontri diretti nelle librerie e nei gruppi di lettura. Nelle biblioteche. Ho
conosciuto un mondo straordinario di persone che leggono e che alimentano
l’amore per la riflessione, per il pensare le cose della vita. È una società buona e spesso nascosta, che
porta i libri nelle scuole e fra le persone.
È stata una gran bella avventura. Si può davvero restare travolti. Mi ha
salvato credo il mio lavoro, bellissimo, la scuola, e anche l’età. Un po’ di equilibrio l’età ce lo
regala.
Nonostante la
scrittura sia sempre stata una sua inseparabile compagna, lei ha pubblicato il
suo primo libro a 50 anni. Come mai ha aspettato tanto?
Sì, ho scritto
tanto e sempre. Un po’ di tutto: racconti, romanzi, molti diari di
viaggio. Non ho mai avuto il desiderio
di pubblicare i lavori di narrativa. Avevo la mia “scrittura di servizio”, così
ho sempre chiamato la collaborazione con Il
Regno. Articoli su chiesa e ambiente, chiesa ed economia, etica e ambiente.
Di confine, sempre di confine. Un cercare quel che ci unisce, credenti e non
credenti. La comune umanità. Ma i racconti, i romanzi li ho sempre considerati
un’espressione personale, mia, scrittura privata. Poi in un certo momento ho
sentito un desiderio di ascolto. E ho mandato il manoscritto di un romanzo al
Premio Calvino.
Lei ha insegnato
italiano per molti anni e ora è diventata preside in un istituto comprensivo di
Rovereto. La sua professione si riflette in qualche modo nei suoi romanzi?
Certo lavorare
nella scuola e con i ragazzi è un privilegio immenso. Vuol dire entrare in
relazione ogni giorno con un mondo di emozioni e di desideri e di sogni ancora
completamente realizzabili, percepiti come possibili. E lo sono. Ai ragazzi e
anche ai bambini dico sempre che l’ora successiva, il pomeriggio che li aspetta
non è ancora stato vissuto. Possono viverlo in modo pieno, oppure no,
sprecarlo, far del bene, buttarlo. Questa meraviglia di possibilità la scuola
deve preservarla e deve dare ai ragazzi gli strumenti per poter costruire ciò
che sono. Nei romanzi entra questo mondo di emozioni. Anche tante paure, tante
ferite. Ma gli adulti ci sono. Ci siamo e possiamo riparare. La scuola è questo
luogo della convivenza possibile, della riparazione, scuola di presente e di
futuro. Un tesoro. Guai dissiparlo.
1 commento:
Salve Fabio, sono capitato sul tuo blog mentre cercavo qualcosa di valido su Mariapia Veladiano ...e l'ho trovata: complimenti per la bella intervista!
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