(Il cappello introduttivo di questa intervista è uscito sul Giornale di Vicenza del 28 ottobre 2011. L'intervista vera e propria, invece, non è mai stata pubblicata).
di Fabio Giaretta
Erano giovani. Avevano ancora tutta la vita davanti
a loro. Tutta una vita da immaginare. Poi, all’improvviso, la morte. Una morte
tragica e crudele. I loro nomi sono scolpiti nella memoria collettiva di questo
Paese. Dirk Hamer, 19 anni, ferito a morte nell’isola di Cavallo, in Corsica,
nel 1978, da una scheggia di proiettile che trapassò lo scafo della barca nella
quale dormiva. Il colpo era partito dal principe Vittorio
Emanuele di Savoia. Alfredo Rampi, 6 anni, caduto in un pozzo artesiano nel 1981, a Vermicino. Eluana
Englaro, entrata in coma nel 1992,
a 21 anni, in seguito ad un incidente stradale. Resterà
in uno stato vegetativo per 17 anni, fino a quando, nel 2009, il padre non
riuscirà a far interrompere l’alimentazione forzata. Giuseppe Di Matteo, rapito nel 1993, a 12 anni, da un gruppo di mafiosi,
ucciso e disciolto nell’acido dopo 779 giorni di prigionia. Federico
Aldrovandi, morto a Ferrara nel 2005, a 18 anni, in seguito
alle percosse ricevute da quattro agenti di polizia.
Parte da qui Marco Mancassola, da questi famosissimi
episodi di cronaca, per costruire i cinque racconti che formano il suo nuovo
libro, Non saremo confusi per sempre (Einaudi,
143 pagg., 16 euro). Questi fatti però, seppur ricostruiti con precisione, vengono
nello stesso tempo trasfigurati grazie al potentissimo strumento dell’immaginazione.
In questo modo la letteratura assume un valore catartico. Essa, infatti, pur
non eliminando il lato perturbante presente in ogni storia, riesce a creare per
queste giovani vittime un altrove rasserenante che permette loro di continuare a
vivere. Alfredino, ad esempio, nel racconto Un
bambino al centro della terra, non muore nel profondo del pozzo, anzi,
questo è solo l’inizio di una meravigliosa avventura che lo porterà ad
intraprendere un viaggio alla scoperta delle viscere della terra.
O ancora, Giuseppe di Matteo, nel racconto Un
cavaliere bianco, viene trasformato da Silvia, una sua compagna di classe
delle elementari, ossessionata dal suo ricordo, in un supereroe capace di
proteggerla e difenderla. E di inoltrarsi, con il suo cavallo bianco, “nella
straziante libertà del cielo”. Una libertà che, grazie alla forza rigenerante e lenitiva dell’arte,
Mancassola restituisce, quasi come forma di risarcimento, ai protagonisti del
libro.
Abbiamo rivolto a Marco Mancassola le seguenti domande su Non saremo confusi per sempre, libro vincitore del Premio Carlo Cocito e del Premio Fiesole, che lo scrittore, nato a Lonigo nel 1973,
ha di recente presentato alla Libreria Do Rode di Vicenza.
Innanzitutto
può raccontarci in che modo è nata l’idea di questo libro?
Avevo bisogno e desiderio di tornare a narrare atmosfere italiane,
dopo l'excursus “americano” della Vita erotica dei superuomini. E da
narratore volevo confrontarmi con ciò che più di tutto costituisce la nostra
narrazione nazionale condivisa: le storie di cronaca. Non era un tentativo,
come ha scritto qualche critico banalizzando, di raccontare l'Italia
berlusconiana. Mi interessavano alcune singole storie, nemmeno tanto recenti,
che hanno inciso sull'inconscio nazionale. E mi interessava provare a
riaffermare, in un'epoca in cui del ruolo della letteratura non importa in
pratica più a nessuno, il primato dell'immaginazione letteraria. Anche sulla
vita, e soprattutto sulla cronaca.
“Non saremo
confusi per sempre”, frase che il fantasma Gustav ripete varie volte nel
racconto Un ragazzo fantasma, è anche
il titolo del libro. Come mai ha scelto questo titolo? Quale vuole essere il
suo significato?
La cronaca relega le vittime in un ruolo chiuso, stereotipato,
fissato per sempre. E relega noi a un ruolo di spettatori altrettanto chiuso. È
solo un esempio di un mondo che ci stringe intorno sempre più asfissiante,
immobilizzante, simile a un limbo o a una sabbia mobile. La confusione cui
allude il titolo è quella che viene dalla domanda delle domande: dove andiamo
adesso? Come facciamo un passo avanti? Il libro non offre risposte ma si limita
a ricordare che essere umani significa essere in transito, processi in
divenire, diretti sempre necessariamente verso un altro mondo possibile – sia
esso metaforico, spirituale, politico. Soltanto ricordandoci questo possiamo
avere fede che sì, chissà, un giorno non saremo più tanto confusi.
Nel libro
vengono ripresi cinque fatti di cronaca molto noti. Per quali ragioni si è
soffermato proprio su questi episodi e non su altri?
Sono fatti che mi hanno sempre molto colpito. E che si prestavano più
di altri a essere riletti, “arricchiti” di una parte immaginaria.
I cinque
fatti di cronaca sono stati ricostruiti con fedeltà ma nello stesso sono stati
rielaborati attraverso l’immaginazione. In questo modo, delle storie che tutti
conoscevamo, almeno per sentito dire, si sono trasformate in delle fiabe
crudeli e nello stesso tempo delicatissime. Perché ha scelto di immergere
questi racconti in una dimensione fantastica e fiabesca?
L'elemento fiabesco è stato un altro parametro che mi ha fatto
scegliere certe storie piuttosto di altre. Uno pensa a Hamer e al principe di
Savoia e ci vede subito il principe, classica figura fiabesca, che però in
questo caso è il farabutto della situazione. Pensa al caso Englaro e ci vede
inevitabilmente una bella addormentata, che però non aspetta il risveglio ma di
andarsene via. La fiaba nel libro è un rimando, una suggestione usata a volte
per contrasto. Poi, un paio di racconti sfociano apertamente nel fantastico,
altri restano più verosimili: tanto che spesso i lettori, così mi dicono,
faticano a distinguere la ricostruzione della realtà dalla parte inventata.
Ogni
storia ridisegna per i cinque protagonisti un destino diverso. La morte per
loro non rappresenta la fine, ma l’inizio di un nuovo viaggio. Attraverso la
letteratura sembra che lei abbia voluto dare una seconda possibilità a queste
vite spezzate troppo precocemente...
Forse è così. Dopo aver letto il racconto su Vermicino, un amico mi ha
scritto un messaggio: “Hai dato una carezza a quel bambino”. Sì, in parte
speravo di riuscire a farlo. Al tempo stesso non sono così presuntuoso da
pensare che quelle vittime, o meglio la loro memoria, abbiano bisogno del mio
libro. Chi ha bisogno di una “seconda possibilità” siamo noi, quelli che
restano, gli spettatori, uomini e donne iperinformati, iperconnessi eppure
perdutamente soli. In questo senso credo che riesca a essere un libro “caldo”.
Che rievoca storie dure e che pure sfocia in una specie di sollievo.
Da un
punto di vista della scrittura, lei ha scelto uno stile molto sobrio e
delicato, con momenti di struggente dolcezza. Ha seguito questa via per
allontanarsi dalle narrazioni urlate ed effettistiche dei giornali?
Ho usato una sorta di “minimalismo visionario”. Non ho lasciato spazio
alla vanità stilistica, seppure credo che ci sia una voce riconoscibile. Tutto
il libro mi ha posto il problema del rispetto dovuto a delle storie vere, e
tale rispetto passava anche attraverso l'uso di uno stile pacato
Tutti i
protagonisti dei racconti, sia quelli realmente esistiti, sia quelli inventati,
sono per lo più ragazzi e ragazze giovani che si trovano a fare i conti con una
dolorosa maturazione interiore. E’ un caso o è stata una scelta voluta?
Alla fine, vero, ogni storia somiglia a un piccolo romanzo di
formazione. Questo è soprattutto evidente nella storia ispirata al bambino
sciolto nell'acido dalla mafia: la storia di formazione riguarda Silvia, la sua
compagna di classe, che seguiamo nella sua difficile crescita fino a quando,
ventunenne, diventa infine una donna indipendente, serena, davvero libera.
Nello
scrivere questi racconti e nel riprendere, sia pure in chiave fiabesca, dei
fatti di cronaca così noti, non ha avuto, almeno per un attimo, paura delle
possibili reazioni dei parenti delle vittime? A questo proposito, ha avuto
qualche contatto con qualcuno di loro prima o dopo l’uscita del libro?
Sì, ho avuto il pensiero. E sì, ho avuto qualche contatto.
In “Un
bambino al centro della terra” lei scrive: “scegli un punto qualunque della
storia di questo paese e dimmi se non ci trovi incredibili sventure”. Da questa
frase e da molti altri elementi disseminati nel suo libro emerge una visione
molto cupa dell’Italia. Si direbbe che il suo rapporto con l’Italia sia molto
sofferto e contrastato. E’ così? Come mai?
Tento di non fare un caso del mio essere italiano. I tormenti del
proprio paese sembreranno sempre peggiori e più paradossali di quelli di ogni
altro. Ma è difficile resistere alla tentazione di considerare l'Italia un caso
limite, la punta estrema delle
contraddizioni occidentali. Fino a qualche tempo fa, provavo a pensare
all'Italia come a un grande spettacolo, un'operetta-pasticcio, un musical
tragicomico pieno di colpi di scena. Infatti per anni siamo stati drogati dai
colpi di scena, così come siamo drogati dal trauma, dalla notizia a ciclo
continuo. Avere un intrattenitore al centro della scena ci nauseava e insieme
ci riempiva le giornate. Oggi neppure questo effetto-circo dell'orrore ci
distrae più, è rimasta solo la nausea. L'Italia è un paese esausto, esaurito, è
come un corpo completamente contuso: ovunque ti toccano, gemi di dolore.
Una delle
linee dominanti del libro è la violenza: la violenza dello Scannacristiani e
degli altri mafiosi verso il piccolo Giuseppe di Matteo; la violenza della
folla dei manifestanti contro il padre di Eluana Englaro; la violenza assurda
di Vittorio Emanuele di Savoia che colpisce con una pallottola il giovane Dirk
Hamer; la violenza dei poliziotti che ammazzano di botte Federico Aldrovandi e
si potrebbe continuare con l’elenco. Come si può spiegare questo assurdo
proliferare degli istinti più ferini dell’essere umano? E’ una deriva del
nostro presente o tutta questa violenza è propria della storia dell’uomo?
Il presente iperconnesso, ipermediatizzato, iperconsapevole agisce
come un castello di specchi. Ogni violenza rimbalza e ci avvolge. Poi, suppongo
che ciò che rende particolarmente amara la violenza oggi è che fino a dieci o
vent'anni fa ci consideravamo ancora, tutto sommato, un mondo in progresso. Un
mondo di esseri umani destinati a migliorare.
Il
racconto “Il ragazzo fantasma” termina in un luogo alquanto singolare: la casa
del Grande Fratello. Per quale ragione ha scelto di far confluire il
protagonista e molti altri fantasmi proprio in questo luogo?
Il Grande Fratello è stato uno dei simboli dell'inautenticità degli
anni Zero. E un grande modello di economia neoliberista: prendere dei corpi
giovani cresciuti nell'era mediatica e convincerli a essere loro stessi lo
spettacolo. Ne usciva un modello di gioventù docile, lucida, intercambiabile,
pronta a diventare carne da macello sotto le luci di uno studio televisivo.
Sotto quelle stesse luci ho fatto invece andare i fantasmi, l'altra gioventù,
quella rimossa, quella ammazzata da poliziotti troppo violenti, quella che non
ha trovato un posto nel sistema.
In tutte
le sue opere, la musica ha una grande importanza. In questo libro, i personaggi
ascoltano canzoni di Carla Bruni, dei Nirvana, di Janis Joplin… In che modo ha
scelto la “colonna sonora”?
La musica alleggerisce, schiarisce. Ci sono delle dinamiche anche
molto pop in questo libro. Ci sono rimandi musicali e, sebbene non dichiarati,
cinematografici. Ci sono personaggi che fanno sorridere.
Ora, dopo
questo libro di racconti, a che cosa sta lavorando?
A un nuovo grosso romanzo.
Nessun commento:
Posta un commento