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8 dicembre 2011

Intervista a Marco Mancassola sul libro "Non saremo confusi per sempre"


(Il cappello introduttivo di questa intervista è uscito sul Giornale di Vicenza del 28 ottobre 2011. L'intervista vera e propria, invece, non è mai stata pubblicata). 

di Fabio Giaretta

Erano giovani. Avevano ancora tutta la vita davanti a loro. Tutta una vita da immaginare. Poi, all’improvviso, la morte. Una morte tragica e crudele. I loro nomi sono scolpiti nella memoria collettiva di questo Paese. Dirk Hamer, 19 anni, ferito a morte nell’isola di Cavallo, in Corsica, nel 1978, da una scheggia di proiettile che trapassò lo scafo della barca nella quale dormiva. Il colpo era partito dal principe Vittorio Emanuele di Savoia. Alfredo Rampi, 6 anni, caduto in un pozzo artesiano nel 1981, a Vermicino. Eluana Englaro, entrata in coma nel 1992, a 21 anni, in seguito ad un incidente stradale. Resterà in uno stato vegetativo per 17 anni, fino a quando, nel 2009, il padre non riuscirà a far interrompere l’alimentazione forzata. Giuseppe Di Matteo, rapito nel 1993, a 12 anni, da un gruppo di mafiosi, ucciso e disciolto nell’acido dopo 779 giorni di prigionia. Federico Aldrovandi,  morto a Ferrara nel 2005, a 18 anni, in seguito alle percosse ricevute da quattro agenti di polizia.
Parte da qui Marco Mancassola, da questi famosissimi episodi di cronaca, per costruire i cinque racconti che formano il suo nuovo libro, Non saremo confusi per sempre (Einaudi, 143 pagg., 16 euro). Questi fatti però, seppur ricostruiti con precisione, vengono nello stesso tempo trasfigurati grazie al potentissimo strumento dell’immaginazione. In questo modo la letteratura assume un valore catartico. Essa, infatti, pur non eliminando il lato perturbante presente in ogni storia, riesce a creare per queste giovani vittime un altrove rasserenante che permette loro di continuare a vivere. Alfredino, ad esempio, nel racconto Un bambino al centro della terra, non muore nel profondo del pozzo, anzi, questo è solo l’inizio di una meravigliosa avventura che lo porterà ad intraprendere un viaggio alla scoperta delle viscere della terra. O ancora, Giuseppe di Matteo, nel racconto Un cavaliere bianco, viene trasformato da Silvia, una sua compagna di classe delle elementari, ossessionata dal suo ricordo, in un supereroe capace di proteggerla e difenderla. E di inoltrarsi, con il suo cavallo bianco, “nella straziante libertà del cielo”. Una libertà che, grazie alla forza rigenerante e lenitiva dell’arte, Mancassola restituisce, quasi come forma di risarcimento, ai protagonisti del libro.
Abbiamo rivolto a Marco Mancassola le seguenti domande su Non saremo confusi per sempre, libro vincitore del Premio Carlo Cocito e del Premio Fiesole, che lo scrittore, nato a Lonigo nel 1973, ha di recente presentato alla Libreria Do Rode di Vicenza.

Innanzitutto può raccontarci in che modo è nata l’idea di questo libro?
Avevo bisogno e desiderio di tornare a narrare atmosfere italiane, dopo l'excursus “americano” della Vita erotica dei superuomini. E da narratore volevo confrontarmi con ciò che più di tutto costituisce la nostra narrazione nazionale condivisa: le storie di cronaca. Non era un tentativo, come ha scritto qualche critico banalizzando, di raccontare l'Italia berlusconiana. Mi interessavano alcune singole storie, nemmeno tanto recenti, che hanno inciso sull'inconscio nazionale. E mi interessava provare a riaffermare, in un'epoca in cui del ruolo della letteratura non importa in pratica più a nessuno, il primato dell'immaginazione letteraria. Anche sulla vita, e soprattutto sulla cronaca.

Non saremo confusi per sempre”, frase che il fantasma Gustav ripete varie volte nel racconto Un ragazzo fantasma, è anche il titolo del libro. Come mai ha scelto questo titolo? Quale vuole essere il suo significato?
La cronaca relega le vittime in un ruolo chiuso, stereotipato, fissato per sempre. E relega noi a un ruolo di spettatori altrettanto chiuso. È solo un esempio di un mondo che ci stringe intorno sempre più asfissiante, immobilizzante, simile a un limbo o a una sabbia mobile. La confusione cui allude il titolo è quella che viene dalla domanda delle domande: dove andiamo adesso? Come facciamo un passo avanti? Il libro non offre risposte ma si limita a ricordare che essere umani significa essere in transito, processi in divenire, diretti sempre necessariamente verso un altro mondo possibile – sia esso metaforico, spirituale, politico. Soltanto ricordandoci questo possiamo avere fede che sì, chissà, un giorno non saremo più tanto confusi.

Nel libro vengono ripresi cinque fatti di cronaca molto noti. Per quali ragioni si è soffermato proprio su questi episodi e non su altri?
Sono fatti che mi hanno sempre molto colpito. E che si prestavano più di altri a essere riletti, “arricchiti” di una parte immaginaria.

I cinque fatti di cronaca sono stati ricostruiti con fedeltà ma nello stesso sono stati rielaborati attraverso l’immaginazione. In questo modo, delle storie che tutti conoscevamo, almeno per sentito dire, si sono trasformate in delle fiabe crudeli e nello stesso tempo delicatissime. Perché ha scelto di immergere questi racconti in una dimensione fantastica e fiabesca? 
L'elemento fiabesco è stato un altro parametro che mi ha fatto scegliere certe storie piuttosto di altre. Uno pensa a Hamer e al principe di Savoia e ci vede subito il principe, classica figura fiabesca, che però in questo caso è il farabutto della situazione. Pensa al caso Englaro e ci vede inevitabilmente una bella addormentata, che però non aspetta il risveglio ma di andarsene via. La fiaba nel libro è un rimando, una suggestione usata a volte per contrasto. Poi, un paio di racconti sfociano apertamente nel fantastico, altri restano più verosimili: tanto che spesso i lettori, così mi dicono, faticano a distinguere la ricostruzione della realtà dalla parte inventata.

Ogni storia ridisegna per i cinque protagonisti un destino diverso. La morte per loro non rappresenta la fine, ma l’inizio di un nuovo viaggio. Attraverso la letteratura sembra che lei abbia voluto dare una seconda possibilità a queste vite spezzate troppo precocemente...
Forse è così. Dopo aver letto il racconto su Vermicino, un amico mi ha scritto un messaggio: “Hai dato una carezza a quel bambino”. Sì, in parte speravo di riuscire a farlo. Al tempo stesso non sono così presuntuoso da pensare che quelle vittime, o meglio la loro memoria, abbiano bisogno del mio libro. Chi ha bisogno di una “seconda possibilità” siamo noi, quelli che restano, gli spettatori, uomini e donne iperinformati, iperconnessi eppure perdutamente soli. In questo senso credo che riesca a essere un libro “caldo”. Che rievoca storie dure e che pure sfocia in una specie di sollievo.

Da un punto di vista della scrittura, lei ha scelto uno stile molto sobrio e delicato, con momenti di struggente dolcezza. Ha seguito questa via per allontanarsi dalle narrazioni urlate ed effettistiche dei giornali?
Ho usato una sorta di “minimalismo visionario”. Non ho lasciato spazio alla vanità stilistica, seppure credo che ci sia una voce riconoscibile. Tutto il libro mi ha posto il problema del rispetto dovuto a delle storie vere, e tale rispetto passava anche attraverso l'uso di uno stile pacato

Tutti i protagonisti dei racconti, sia quelli realmente esistiti, sia quelli inventati, sono per lo più ragazzi e ragazze giovani che si trovano a fare i conti con una dolorosa maturazione interiore. E’ un caso o è stata una scelta voluta?
Alla fine, vero, ogni storia somiglia a un piccolo romanzo di formazione. Questo è soprattutto evidente nella storia ispirata al bambino sciolto nell'acido dalla mafia: la storia di formazione riguarda Silvia, la sua compagna di classe, che seguiamo nella sua difficile crescita fino a quando, ventunenne, diventa infine una donna indipendente, serena, davvero libera.

Nello scrivere questi racconti e nel riprendere, sia pure in chiave fiabesca, dei fatti di cronaca così noti, non ha avuto, almeno per un attimo, paura delle possibili reazioni dei parenti delle vittime? A questo proposito, ha avuto qualche contatto con qualcuno di loro prima o dopo l’uscita del libro?
Sì, ho avuto il pensiero. E sì, ho avuto qualche contatto.

In “Un bambino al centro della terra” lei scrive: “scegli un punto qualunque della storia di questo paese e dimmi se non ci trovi incredibili sventure”. Da questa frase e da molti altri elementi disseminati nel suo libro emerge una visione molto cupa dell’Italia. Si direbbe che il suo rapporto con l’Italia sia molto sofferto e contrastato. E’ così? Come mai?
Tento di non fare un caso del mio essere italiano. I tormenti del proprio paese sembreranno sempre peggiori e più paradossali di quelli di ogni altro. Ma è difficile resistere alla tentazione di considerare l'Italia un caso limite, la punta  estrema delle contraddizioni occidentali. Fino a qualche tempo fa, provavo a pensare all'Italia come a un grande spettacolo, un'operetta-pasticcio, un musical tragicomico pieno di colpi di scena. Infatti per anni siamo stati drogati dai colpi di scena, così come siamo drogati dal trauma, dalla notizia a ciclo continuo. Avere un intrattenitore al centro della scena ci nauseava e insieme ci riempiva le giornate. Oggi neppure questo effetto-circo dell'orrore ci distrae più, è rimasta solo la nausea. L'Italia è un paese esausto, esaurito, è come un corpo completamente contuso: ovunque ti toccano, gemi di dolore.

Una delle linee dominanti del libro è la violenza: la violenza dello Scannacristiani e degli altri mafiosi verso il piccolo Giuseppe di Matteo; la violenza della folla dei manifestanti contro il padre di Eluana Englaro; la violenza assurda di Vittorio Emanuele di Savoia che colpisce con una pallottola il giovane Dirk Hamer; la violenza dei poliziotti che ammazzano di botte Federico Aldrovandi e si potrebbe continuare con l’elenco. Come si può spiegare questo assurdo proliferare degli istinti più ferini dell’essere umano? E’ una deriva del nostro presente o tutta questa violenza è propria della storia dell’uomo?
Il presente iperconnesso, ipermediatizzato, iperconsapevole agisce come un castello di specchi. Ogni violenza rimbalza e ci avvolge. Poi, suppongo che ciò che rende particolarmente amara la violenza oggi è che fino a dieci o vent'anni fa ci consideravamo ancora, tutto sommato, un mondo in progresso. Un mondo di esseri umani destinati a migliorare.

Il racconto “Il ragazzo fantasma” termina in un luogo alquanto singolare: la casa del Grande Fratello. Per quale ragione ha scelto di far confluire il protagonista e molti altri fantasmi proprio in questo luogo?
Il Grande Fratello è stato uno dei simboli dell'inautenticità degli anni Zero. E un grande modello di economia neoliberista: prendere dei corpi giovani cresciuti nell'era mediatica e convincerli a essere loro stessi lo spettacolo. Ne usciva un modello di gioventù docile, lucida, intercambiabile, pronta a diventare carne da macello sotto le luci di uno studio televisivo. Sotto quelle stesse luci ho fatto invece andare i fantasmi, l'altra gioventù, quella rimossa, quella ammazzata da poliziotti troppo violenti, quella che non ha trovato un posto nel sistema.

 In tutte le sue opere, la musica ha una grande importanza. In questo libro, i personaggi ascoltano canzoni di Carla Bruni, dei Nirvana, di Janis Joplin… In che modo ha scelto la “colonna sonora”?
La musica alleggerisce, schiarisce. Ci sono delle dinamiche anche molto pop in questo libro. Ci sono rimandi musicali e, sebbene non dichiarati, cinematografici. Ci sono personaggi che fanno sorridere.

Ora, dopo questo libro di racconti, a che cosa sta lavorando?
A un nuovo grosso romanzo.

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