Pagine

19 agosto 2007

Intervista a Fabio Franzin

(Pubblico qui l'intervista integrale al poeta Fabio Franzin, uscita in forma leggermente diversa e ampiamente ridotta sul giornale di Vicenza)

di Fabio Giaretta

“Ai poeti” scriveva Umberto Saba in un suo famoso articolo del 1911 “resta da fare la poesia onesta”. Ovvero una poesia che rispecchi delle motivazioni sincere, che non inganni con false apparenze il lettore, che sappia scandagliare il fondo dell’animo e della realtà senza bardature superflue, ma anche senza forzature ideologiche.
Leggendo i versi di Fabio Franzin, una delle voci più interessanti della poesia neodialettale contemporanea, si ha la chiara percezione che la sua sia una poesia intimamente onesta. I suoi versi, scritti per lo più nel dialetto parlato nell’Opitergino-Mottense, variante molto pastosa del dialetto Veneto-Trevigiano, colpiscono infatti per la loro autenticità. Franzin non forza mai l’ispirazione e non si lascia mai tentare da facili virtuosismi. Tutto ciò gli permette di conquistare una lingua semplice e concreta, che sa farsi lingua di tutti e che riesce a penetrare, in modo tutt’altro che semplicistico, l’inquieta complessità del reale. Abbiamo incontrato Fabio Franzin in occasione della presentazione del suo ultimo libro Mus.cio e roe (Muschio e spine; Le voci della Luna, pp. 151, euro 12), con cui ha recentemente vinto il prestigioso Premio Città di San Pellegrino Terme, ex aequo con Dal balcone del corpo di Antonella Anedda e con Assetto di volo di Pierluigi Cappello.

- Lei si è formato come poeta alla scuola della vita e questo ha dato autenticità, immediatezza e concretezza ai suoi versi. A differenza dei cosiddetti “poeti laureati” lei infatti ha cominciato a fare l’operaio a 16 anni e da allora non ha più smesso. In che modo si è avvicinato alla poesia?
Mi ci sono avvicinato, da prima, attraverso l’ascolto dei cantautori: De Andrè, Guccini, De Gregori, che ancora adesso considero fra i maggiori poeti italiani, nel senso del contenuto; poi, per naturale proseguio, per “bisogno” di compagni, mi sono avvicinato ai poeti senza chitarra; non senza musica; tanto che, se dovessi dire cosa è, secondo me, la poesia, direi che è una dichiarazione d’amore che le parole fanno alla musica.

- Lei ha scritto poesie sia in lingua che in dialetto. Però oramai il dialetto è diventato la lingua preferenziale dei sui versi. Come mai?
Innanzitutto va precisato che il dialetto per me non è la lingua madre, i miei genitori pur essendo veneti sono andati a lavorare a Milano e tra loro, non so come mai, si parlavano in italiano. A sette anni sono ritornato con loro in Veneto e ho dovuto imparare il dialetto: per me è stato come imparare una lingua straniera. Devo dire grazie alla zona in cui vivo perché il dialetto è parlatissimo, anche dai giovani. Un mio carissimo amico, Achille Serrao, poeta e critico dialettale fra i maggiori, e prefatore del mio primo libro in dialetto, dice, spesso, che non è il poeta a scegliere la lingua in cui esprimersi, ma è lei, la lingua che sceglie il poeta. Così è stato anche nel mio caso; e una trasposizione teatrale del “Filò” di Zanzotto, più di un decennio or sono, mi fece intuire quale forza fosse insita nel dialetto.

- Come mai il dialetto secondo lei appare più vicino alle cose rispetto alla lingua italiana?
Perché è la lingua che nomina le cose, nel luogo, quasi, o spesso, naturalmente, nel senso che le nomina, onomatopeicamente, così per come appaiono, per l’uso che l’uomo ne fa o per ciò che le cose impongono all’uomo. Pensi alla parola fuìss, che nel mio dialetto nomina la donnola: esiste, in lingua italiana, corrispettivo più bello e preciso per indicare un rapace, esile, guizzante e, per necessità, sempre pronto alla fuga? Trovo poi, nel dialetto, quel pudore che mi è necessario per dar voce ai miei sentimenti: ad esempio in dialetto, almeno nel mio, non esiste la parola amore. Si dice te vui ben ad una “morosa”; se il sentimento diventa forte, te vui tant ben, quasi per il timore di ammettere questo sentimento o la paura di sbilanciarsi troppo.

- Quali sono stati i poeti che l’hanno influenzata di più?
Zanzotto e Saba, che considero un po’ i “padrini” che hanno tenuto a battesimo, dentro di me, i due aspetti fondanti della mia poetica: l’amore per il paesaggio, la natura, e quel minimalismo di “cose vicine, sotto il proprio respiro”. Ma certo molto devo anche a Marin, Giotti, Caproni, Loi, Pascutto e, per citare solo tre nomi di poeti stranieri: Seamus Heaney, Robert Frost e Neruda. Molto, per la mia formazione, devo anche a quei “poeti” che mi hanno trasmesso emozioni in arti diverse: la filmografia di Antonioni, per esempio, o la grande pittura veneta del ‘500 (Jacopo da Bassano su tutti). Un capitolo a parte lo merita, oggi con dolore per la sua recente scomparsa, la narrativa di Meneghello: un grande maestro, un grande poeta che ha eletto il dialetto a lingua di un’anima, di un popolo.

- La sua precedente raccolta si intitolava Pare ed era dedicata alla figura di suo padre. Anche quest’ultimo libro è dedicato alla memoria di suo padre e termina con una poesia Destìn ambuente che lo vede come protagonista… Come mai suo padre ha una posizione così centrale nelle sue poesie?
Mio padre è stato, per me, una figura esemplare; proprio perché l’educazione che mi ha trasmesso è passata attraverso i gesti, l’esempio; i valori che porto in dote e che, molto miserevolmente (non ho la sua stoffa, purtroppo), cerco di far perpetuare, sembrano un po’ passati di moda: l’onestà morale e l’umiltà. Io ci credo ancora, e faccio il possibile perché ci credano anche i miei figli.

-La sua ultima raccolta poetica si intitola Mus.cio e roe (Muschio e spine) e comprende diversi testi inediti più una selezione di poesie provenienti da due sue raccolte precedenti. Come mai ha scelto questo titolo? Che cosa rappresentano per lei questi due elementi naturali che ritornano spesso nelle sue poesie?
Il muschio, come ha ben intuito il giovane critico Alberto Cellotto, nella sua recensione a mie due opere, fra cui quella all’ultima raccolta, è uno dei topos della mia poetica. Questo vegetale che nasce all’ombra, nel lato a nord delle cortecce, discosto, soffice, materia insostituibile dei presepi, quindi della rappresentazione sacra di una comunità, è, per me, l’idea stessa della poesia, dell’amore. Le spine (del rovo di siepe, delle rose), sono il necessario controcanto del muschio, la parte acuminata di quel dolore (da Cristo, dalla corona per spregio) necessario per capire la carne: pungersi per farsi quindi re della propria anima. Entrambi, poi, elementi fondanti del paesaggio veneto; entrambi elementi simbolo della nostra esistenza.

- La sua scrittura si caratterizza per una grande ampiezza di spettro. All’interno del libro si nota infatti un allargamento progressivo di prospettiva, dai fatti personali ad eventi collettivi, dalla poesia amorosa e quella narrativa, dall’autoanalisi alle storie familiari e ai ritratti di personaggi. Da dove nasce questa grande varietà?
“Mus.cio e roe” prende l’avvio come il canto straziato ad un amore perduto; poi, via via, la scena si popola, proprio come in un presepe, di una comunità, ogni personaggio entra con la sua storia, spesso, apparentemente, priva di colore; come se chi prima gridava sommessamente la sua perdita avesse ora trovato una compagnia. Una sorta di Spoon River della memoria, delle nostre pianure. Attraverso questi personaggi ho cercato di far uscire, ora l’aspetto più di pietas, o più intimistico, ora quello più civile della mia poetica, della mia coscienza.

- Il dialetto, spesso a torto considerato una lingua rozza e grossolana, dà alle poesie d’amore che aprono il suo libro un pudore e una delicatezza rari da trovare nella poesia in lingua…
La ringrazio. I giovani, che qui in Veneto continuano, per fortuna, a parlare, parlarsi in dialetto, lo fanno, però, proprio come lo facevo io, allora, con una sorta di “vergogna”, quasi si sentissero i depositari di un retaggio di bestie e di stalle. Io ho trovato, nel mio dialetto, l’aspra e roca voce per dire l’amore oltre il melenso, come io lo sento, e certo, questa lingua, con i suoi suoni, le sue cesure, anche in tale contesto mi è venuta incontro.

- I suoi versi sono caratterizzati da una forte dimensione popolare. Questo emerge in modo macroscopico nel suo ultimo libro dove appaiono moltissimi racconti e ritratti di uomini e donne del popolo, persone che in genere sono escluse dalla storia o che comunque la subiscono. La poesia, in questo caso, può essere intesa come una sorta di risarcimento?
Guardi, io ho incominciato a scrivere relativamente tardi, intorno ai 25 anni, dopo aver letto molto; perché, non avendo potuto proseguire gli studi dopo la scuola dell’obbligo, credevo, mancanti certe basi, che in qualche modo, non ne fossi degno. Quindi, circa una ventina di anni or sono, entrai in un bar proprio nell’attimo in cui, il titolare dello stesso stava redarguendo, in malo modo, la cameriera che aveva sul libro paga. Erano presenti altri avventori, e nel viso di quella ragazza, nei suoi occhi, vi scorsi l’umiliazione; quella sua umiliazione mi penetrò, e, proprio in quell’istante, decisi che avrei scritto, descritto quel dolore. Da allora non ho più smesso.

- Oltre alle persone del popolo, nei suoi versi grande importanza assume anche il paesaggio, che non ha mai la funzione di puro sfondo…
Il paesaggio non può, non deve essere considerato solo un bel fondale per la recita della nostra esistenza. Credere ciò, lo abbiamo, purtroppo constatato, ci porta all’idiota convinzione di poterlo tranquillamente cambiare, quel fondale, di sentirci in diritto anche di violarlo, con gli esiti disastrosi sull’ecosistema che sappiamo. Per me il paesaggio, grande la scuola di Zanzotto, è un compendium del sentimento umano, è una forma d’amore che, attraverso lo sguardo, porta polline all’anima, fiorisce in parola, genera frutti di senso.

- Nella poesia “ Còssa gh’in ciaparèto po’ a far puisìe?” (Cosa ci guadagnerai, poi, a scrivere poesie), lei gioca con la vicinanza fonetica di due parole: puisìe (poesie) e puissìe (pulizie). Al di là della somiglianza fonetica non crede che questo accostamento dica molto anche del suo modo di intendere la poesia?
La poesia, nel mio caso, ha fatto pulizia di tante mie ostinate tristezze, in primo luogo. Poi, continuando nel crinale di questa metafora, certamente voluta, in quel testo, credo nel valore detergente della parola; mi spiego: credo che la parola poetica possa nettare il mondo dal prefisso im-, che, nella realtà, nei suoi più nefasti eventi, ci tocca a volte accostare al termine mondo, e quindi, di nuovo, alla realtà. Ancora è Zanzotto a dirlo in maniera perfetta, con le sue linde parole: “Mondo sii, e buono…”

Breve nota biografica su Fabio Franzin:
Fabio Franzin è nato nel 1963 a Milano ma vive da anni a Motta di Livenza, in provincia di Treviso. Ha pubblicato le seguenti raccolte poetiche: In canti d’aria (e rapide dimenticanze), Kellermann, 1995; El coeor dee paroe con prefazione di Achille Serrao (Zone, 2000); nel 2003, presso ECIG, Il centro della clessidra (Premio “Ugo Foscolo 2002”); nel 2005 la Canzón daa provenza e altre trazhe d’amór (Fondazione Corrente, Milano), vincitore del Premio Edda Squassabia 2004 e Il groviglio delle virgole (Stamperia dell’Arancio) con introduzione di Elio Pecora; nel 2006, per le edizioni Helvetia, è uscito Pare (Padre), con prefazione di Bepi De Marzi. La sua ultima raccolta, uscita per la casa editrice Le voci della luna, si intitola Mus.cio e roe (Muschio e spine) e contiene una scelta di testi tratti da El coeor dee paroe e da Canzon daa Provenza, più diversi inediti.