Avvertenza: pur trattandosi di un
libro che definire prevedibile è fin troppo generoso, nella seguente recensione
vengono rivelati vari elementi della trama. Chi volesse gustarsi i sensazionali
colpi di scena contenuti nel romanzo, si legga prima il nuovo libro di
D’Avenia e poi, questa recensione.
Premessa: Non fosse per i miei
alunni, che lo adorano, non avrei mai letto il secondo romanzo di Alessandro
D’Avenia, Cose che nessuno sa. A loro
D’Avenia piace moltissimo e, da un certo punto di vista, posso capirli. I due
romanzi finora scritti dal giovane scrittore siciliano mettono in campo tutta
una serie di trucchetti e di colpi bassi ai quali un adolescente difficilmente
può resistere. Non potendo inserire le opere di D’Avenia nell’indice dei libri
proibiti, anche se, lo confesso, se ne esistesse ancora uno, mi piacerebbe
molto farlo, non mi resta che rassegnarmi al fatto che è meglio che leggano con
passione “Bianca come il latte, rossa come il sangue” e “Cose che nessuno sa”
piuttosto che non leggano affatto. In un secondo momento, dopo un percorso di
lettura via via più impegnativo, si può, forse, ragionare con loro sui limiti
di queste opere sviluppando in loro un maggiore senso critico.
Il nuovo libro di Alessandro
D’Avenia, Cose che nessuno sa, è come
una bolla di sapone: iridescente e cangiante in superficie, completamente vuoto
dentro. Se Bianca come latte, rossa come
il sangue, primo fortunato romanzo dello scrittore e insegnante siciliano
(nato a Palermo nel 1977), poteva anche avere una sua, per quanto fioca,
ragione d’essere, la sua nuova fatica lascia decisamente perplessi. La trama,
che ripropone molti elementi di Bianca
come il latte, rossa come il sangue, risulta assolutamente prevedibile e scontata.
La protagonista, Margherita, è una giovane adolescente alle prese con il primo
anno delle superiori. Improvvisamente, il padre abbandona la famiglia, facendo
cadere in una crisi profonda la giovane ragazza. L’unica che riesce ad
alleviare in parte la sua pena è la nonna Teresa, una figura patetica, ai
limiti della caricatura, continuamente intenta a cucinare, a sciorinare
illuminanti massime sulla vita in siciliano e a ricordare il marito morto e il
loro straordinario amore. Altra figura insopportabile è quella del giovane
professore di lettere, una sorta di fotocopia del sognatore del primo romanzo,
portata qui al parossismo. Immaturo sentimentalmente, si rifugia dietro i suoi
libri per non affrontare la vita e la sua paura di crescere, che in questo caso
si manifesta nell’incapacità di fare un salto di qualità nella relazione con
Stella, la donna di cui è innamorato. Sarà proprio lui, grazie alle sue
travolgenti e palpitanti lezioni sull’Odissea, e in particolare grazie al
racconto del viaggio intrapreso da Telemaco alla ricerca del padre Ulisse, a
suggerire a Margherita l’idea di partire alla ricerca del padre. La
accompagnerà Giulio, un ragazzo senza genitori, bello e dannato, capace però di
redimersi grazie alla forza dell’amore. Il viaggio finirà in un tragico
incidente, in seguito al quale Margherita entrerà in coma. Al suo capezzale, il
padre e la madre si ritroveranno nuovamente uniti e innamorati. Inutile dire
che Margherita si risveglierà e che la sua relazione con Giulio continuerà. Il
professore, dal canto suo, troverà la forza di affrontare i suoi blocchi e
sposerà Stella. Insomma, della serie “e vissero tutti felici e contenti”. A
parte il povero lettore. Che si deve sorbire una storia ruffiana e banale,
raccontata con uno stile lezioso, fortemente emotivo, che vorrebbe essere
lirico e poetico e che invece risulta irritante e ridicolo. Il buonismo
dolciastro e fasullo di questo libro non ha nulla di catartico e non
rappresenta, come forse vorrebbe il suo autore, un elogio alla bellezza della
vita, bensì uno sfregio alla stratificata e ruvida complessità dell’esistenza.