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8 luglio 2006

Intervista a Umberto Fiori (2006)


Non molto tempo fa, in un articolo dedicato alla presentazione della Giornata mondiale della poesia, scrissi: "la poesia deve essere liberata dalla torre d'avorio in cui è stata confinata e scendere tra la gente". Sono infatti fermamente convinto che essa perda una parte della sua essenza più vera, se si riduce ad essere una primizia destinata ad un pubblico di pochi iniziati. Con questo non intendo assolutamente dire che questa debba essere compiacente a tutti i costi con i propri destinatari. Anzi. Se la poesia deve scendere dalla torre d'avorio, lo deve fare senza facili compromessi e superficiali concessioni, e il pubblico deve comunque andarle incontro in modo aperto e disponibile. Sono però convinto che una delle cause che ha allontanato un ampio numero di lettori dalla parola poetica si debba cercare nella compiaciuta autoreferenzialità e nella gratuita oscurità che troppo spesso ha inquinato alle radici la poesia contemporanea. Naturalmente non sto sostenendo il partito di una poesia chiara e limpida a tutti i costi. Simili schematismi sono ben lungi dalla complessità del fare poetico. La poesia ha il pieno diritto di essere oscura e sfuggente, purchè questo sia intimamente legato alla pregnanza del suo messaggio. Se manca questo accordo profondo si cade, a mio avviso, in un pirotecnico gioco illusionistico che ha poco a che fare con l'autentica poesia. Questa riflessione, che meriterebbe un maggiore approfondimento, è ritornata prepotentemente nella mia mente dopo l'incontro con il poeta Umberto Fiori. Innanzitutto qualche riferimento biografico. Umberto Fiori è nato a Sarzana nel 1949 e vive a Milano. Ha fatto parte, come cantante e autore di canzoni, degli Stormy six, gruppo storico del rock italiano. Ha pubblicato le seguenti raccolte poetiche: Case, (S. Marco dei Giustiniani, 1986), confluito poi nel suo secondo libro Esempi (Marcos y marcos, 1992), Chiarimenti (Marcos y Marcos, 1995), la plaquette Parlare al muro, Tutti (Marcos y Marcos, 1998), La bella vista (Marcos y Marcos, 2002). Quello che colpisce immediatamente nella sua ricerca poetica è la volontà di raggiungere una piena trasparenza comunicativa e una relazione diretta, quasi fisica, con il lettore. I suoi versi - e qui sta a mio avviso uno degli elementi di forza della poesia di Fiori - riescono a i mantenere un dettato sempre molto piano, colloquiale, quasi rasoterra e a cogliere nello stesso tempo, senza livellanti semplificazioni, tutti i grumi irrisolti del reale. Ho rivolto alcune domande a Umberto Fiori che è stato protagonista del penultimo appuntamento della rassegna Poesia/Poesie, Incontri con la poesia contemporanea. L'incontro si è articolato in due momenti: prima Fiori ha parlato al pubblico a Palazzo Fogazzaro a Schio, e poi ha tenuto, assieme a Tommaso Leddi che l'ha accompagnato alla chitarra, un concerto basato su poesie di Franco Loi al Centro Stabile di Cultura, dimostrando di essere, oltre che un poeta degno di assoluta attenzione, anche un cantante dotato di una voce profonda e pentrante e di una presenza scenica elegante e carismatica.
- Lei negli anni Settanta ha fatto parte, come cantante e autore di canzoni, degli Stormy six, un gruppo storico del rock italiano. Poi ha cambiato rotta e si è dedicato alla poesia. Quali rotture e quali continuità vede tra questi due momenti della sua attività artistica?
In realtà, ho cominciato a scrivere poesie ben prima di fare il musicista. Entrando negli Stormy Six ho cominciato a scrivere delle canzoni e a cantarle. Questo ha cambiato molto il mio modo di pensare la scrittura: non avevo a che fare con la pagina, non dovevo produrre un testo "muto", un oggetto verbale disincarnato; le parole andavano concepite fin dall'inizio per essere portate di fronte a un pubblico dalla voce di qualcuno (la mia). La differenza non è soltanto formale, estetica: quando sali su un palco e canti, non c'è la mediazione del libro; le tue parole e la tua presenza fisica fanno tutt'uno, "ci metti la faccia", ti esponi, ti metti in gioco, ti assumi pubblicamente la responsabilità di quello che hai scritto. E' un "martirio" nel senso tecnico, etimologico del termine: la parola è "convalidata" da un testimone in carne e ossa. Io questo lo sentivo molto; sentivo il rischio che il senso delle parole correva offrendosi alla gente che ascoltava. Tra l'altro, il nostro pubblico era molto eterogeneo, con aspettative, competenze e livelli di attenzione molto diversi: un giorno suonavamo in un'università tedesca, il giorno dopo sulla piazza di un paesino della Calabria, e così via. E' un'esperienza che mi ha segnato: quando - negli anni '80- ho chiuso con il mestiere di musicista e mi sono dedicato completamente alla poesia, la mia idea di parola era ancora legata a quel rapporto immediato, quasi fisico, con il destinatario. In più, erano crollate tutte le certezze ideologiche che in passato ancora potevano sostenere la mia scrittura: i miei versi, ora, erano completamente disarmati. Questo, certo, mi dava angoscia, ma anche un senso nuovo di libertà, di verità, di serietà.
- La sua poesia rifiuta in modo quasi programmatico l'oscurità e mira ad una trasparenza comunicativa, ad un asciuttezza quasi prosastica e ad un incontro diretto con il lettore. Come mai ha scelto un dettato così spoglio e fedele alla realtà? Da dove nasce questa medietà di toni e questa volontà di relazione e di chiarezza?
Verso i trent'anni, quando già avevo scritto parecchio (senza decidermi a pubblicare), un certo modo di fare poesia - quello che punta sull'allusione, sull'obliquità, sull'ellissi, sul primato del significante - ha cominciato a nausearmi un po'. Ci sentivo dentro un di troppo di letteratura, di estetica, e anche - come dire - un trucco. Ero stanco della poesia scritta per gli iniziati, per i critici, se non per i poeti stessi. Se la poesia è questo esercizio di stile, di finezza letteraria, mi dicevo, allora non mi interessa; o ci sono delle cose da dire, un senso da mettere in gioco, oppure tanto vale lasciar perdere. Così mi sono messo sulle tracce di quella che chiamavo la mia "parola normale". Pensavo a una poesia il più possibile chiara, che non bara, che si sforza di essere fedele al mondo, alle cose. Il mio lettore ideale non era (non è) uno che di poesia se ne intende: era (è) una persona capace di ascoltare quello che un altro ha da dirle, di confrontare con la sua la propria esperienza, senza troppi filtri estetico-letterari.
- Nella sua poesia è quasi assente una figura retorica come la metafora del tutto centrale nella poesia del Novecento mentre trova larghissimo spazio una figura un po' in disuso come la similitudine. Come mai questa scelta?
La metafora intreccia e complica i rapporti tra le parole e le cose; nella similitudine, due immagini vengono accostate, una "spiega" l'altra, la illustra, ma ciascuna conserva la propria integrità, è interamente riconoscibile. Anche qui, la mia propensione è dettata dalla ricerca di una maggiore leggibilità, di una chiarezza e di una fedeltà al mondo, al suo senso più comune, più condiviso.
- Finora lei ha scritto quattro libri di poesie: Esempi (1992), Chiarimenti ( 1995), Tutti (1998) e La bella vista (2002). Come vede la sua evoluzione stilistica e tematica attraverso queste quattro raccolte?
In Esempi avevo quasi del tutto eliminato, per una sorta di inibizione, la prima persona, il soggetto lirico. Non potevo più dire "noi", ma nemmeno "io". Il soggetto era per lo più "uno", o un "si" impersonale. Da un libro all'altro ho recuperato gradualmente la prima singolare, fino a restituirle una posizione centrale nella Bella vista. Sul piano del linguaggio, mi pare che non ci siano state svolte importanti dopo Esempi. Nella Bella vista c'è la novità di un paesaggio "naturale" e ben identificato, rispetto agli imprecisati scenari urbani dei libri precedenti. Ma in fondo, quel panorama marino è stretto parente dei muri, degli scavi e delle case dei libri precedenti. Al di là delle differenze, ho l'impressione di avere scritto quattro capitoli di un unico libro.
- Milano, come in molti altri poeti milanesi contemporanei, ha un'assoluta centralità nella sua poesia. Che cosa l'attrae di questa città?
Per Milano (che nei versi non nomino mai, neppure indirettamente) ho avuto prima una repulsione (al mio arrivo, quando avevo cinque anni) poi - più che un'attrazione - un'accettazione. Diciamo che ho dovuto fare i conti con questa città, un po' come tutti dobbiamo fare i conti col luogo in cui abitiamo, o se si vuole col fatto che un abitare e un luogo ci siano dati.
- Voltess il concerto che ha portato con Tommaso Leddi al Centro Stabile di Cultura è basato su poesie di Franco Loi. Com'è nato questo progetto attraverso il quale è tornato a suonare insieme a Tommaso Leddi altro membro degli Stormy six? Quale ruolo ha avuto Loi nella sua formazione poetica? Quali altri poeti sono stati importanti per la sua maturazione artistica?Vòltess è nato senza un progetto preciso, nel 1998: Tommaso Leddi aveva musicato un testo di Franco Loi, e mi aveva chiesto di cantarlo giusto per sentire come funzionava. Da lì è partito tutto: io ho scelto altri testi dai libri di Loi e Tommaso ha scritto le canzoni in pochi mesi, una dopo l'altra. Non sempre le cose vengono fuori così, quasi senza sforzo: spesso i progetti più belli sulla carta si insabbiano in mille discussioni, dubbi, ripensamenti. In questo caso, penso che abbia giocato molto, oltre al nostro lungo affiatamento musicale e alla nostra amicizia, l'amore di tutti e due per il poeta in questione. Tommaso conosce Loi fin da quando era bambino (è un caro amico di suo padre), io l'ho incontrato negli anni '70, ed è stato un incontro memorabile. Franco Loi ha un'idea "forte" della poesia, che va al di là della dimensione letteraria, estetica. C'è nel suo lavoro una tensione politica, filosofica, anche religiosa (fa pensare a Tolstoj, a Dostoevskij), che in altri autori del nostro Novecento è assente, rimossa, o comunque tenuta "sotto controllo". Questa sua diversità mi ha prima sconcertato, poi conquistato. Altri poeti per me importanti sono stati Vittorio Sereni e Franco Fortini, che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente, e poi - per nominare solo gli italiani e limitarci al Novecento - Camillo Sbarbaro, Eugenio Montale, Sandro Penna, Giorgio Caproni, Andrea Zanzotto.
- Come mai nella sua poesia c'è una così assidua presenza della presa di parola, del discorso e della chiacchiera?
Io sento molto la forza della parola, anche la sua violenza. Sono molto vulnerabile a qualsiasi tipo di discorso: parlare mi sembra sempre un atto decisivo, con potenziali effetti "magici". Ogni volta che due persone si rivolgono la parola, si sta per decidere il senso intero del mondo. La chiacchiera cerca di sfuggire a questa serietà, ma anche in lei cova una potenza tremenda. La mia poesia la penso come un discorso che si assume tutto il peso di questa potenza.