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17 settembre 2019

Intervista ad Andrea Tarabbia su "Madrigale senza suono" (Vincitore Premio Campiello 2019)


Una versione molto ridotta di questa intervista è uscita su “Il Giornale di Vicenza” del 31 agosto 2019. Ho avuto la fortuna di intervistare Andrea Tarabbia in occasione del tour per il Premio Campiello. Premio che è stato vinto dal suo notevole e sorprendente “Madrigale senza suono”.

Di Fabio Giaretta

“Il demone a Beslan”, “Il giardino delle mosche” e “Madrigale senza suono” mostrano come Andrea Tarabbia parta sempre dalla realtà, da qualcosa di davvero accaduto, aggiungendovi “il fittizio per poterla raccontare”. Attraverso la letteratura lo scrittore vuole riempire “le parti cave e oscure del reale”. Ciò che gli interessa però non è la realtà storica in senso stretto, ma quella umana.
“Il demone a Beslan” (Mondadori, 2011) si basa su un tremendo fatto di cronaca, avvenuto in Ossezia nel 2004, quando un gruppo di separatisti ceceni occupò una scuola per tre giorni. L’occupazione si risolse nella strage di 334 persone, tra cui molti bambini, a seguito dell’irruzione della polizia. Tarabbia sceglie di far raccontare questa storia a Marat Bazarev, unico membro del commando ceceno sopravvissuto, che scrive una sorta di confessione mentre si trova in un carcere di massima sicurezza a Mosca. Si tratta di un personaggio inventato, ma verosimile, perché effettivamente uno degli attentatori, Nurpaša Kulaev, sopravvisse e fu condannato all’ergastolo. Ma questa voce, durante la narrazione, è perturbata da altre voci, quella di Petja, un bambino morto nella scuola, e quella di Ivan, un vecchio deforme che vede dall’esterno dell’edificio quello che sta succedendo. Entrambi altro non sono che fantasmi della mente di Marat.
Nel successivo “Il giardino delle mosche” (Ponte alle Grazie, 2015), finalista al Premio Campiello, Tarabbia fa ancora i conti con una storia vera e con due temi presenti in tutte le sue opere, il male e la morte. Qui si misura ancora con una vicenda che ha a che fare con la Russia, ovvero quella di Andrej Čikatilo, il mostro di Rostov, che uccise almeno 56 persone infliggendo loro indicibili mutilazioni. E decide di dargli la voce e di fargli raccontare la sua terribile storia così come aveva fatto Marat ne “Il demone a Beslan”. A questa voce monologante se ne aggiungono però altre come quella fantasmatica del fratello Stepan Romanovič, morto in circostanze tragiche e oscure quand’era ancora piccolo, o quella dell’ispettore, il dottor Kostoev, che raccoglie la testimonianza di Čikatilo. Ancora una volta, insomma, un flusso di voci e di punti di vista.
Arriviamo così a “Madrigale senza suono” (Bollati Boringhieri, 2019), vincitore dell'ultima edizione del Premio Campiello, in cui la dimensione polifonica de “Il demone a Beslan” e “Il giardino delle mosche” viene portata alle estreme conseguenze. Il protagonista principale è il geniale e innovativo compositore di madrigali Carlo Gesualdo, nato a Venosa nel 1566 e morto a Gesualdo nel 1613. Se oggi la sua figura è ampiamente conosciuta lo dobbiamo alla riscoperta novecentesca da parte di un altro grande compositore, Igor Stravinskij, che gli dedicò il “Monumentum pro Gesualdo di Venosa ad CD annum, tre madrigali ricomposti per strumenti”. Partendo da questi elementi, Andrea Tarabbia immagina che Stravinskij abbia ritrovato un misterioso resoconto sulla vita di Gesualdo scritto da un suo fedele servitore, il nano deforme Gioachino Ardytti. Così alla voce di Gioachino, che narra una biografia intima e privata del principe, si aggiungono quella di Stravinskij, che via via commenta quello che sta leggendo, quella di Glenn Watkins, grandissimo studioso americano di Gesualdo che nel finale del libro dà la sua interpretazione del manoscritto ritrovato, quella di Gesualdo stesso e di un coro di personaggi secondari che attraversano la narrazione.
Ed è su questo notevole romanzo, dai toni cupi e gotici, al quale però non mancano momenti comici e buffi, e che gioca in modo molto intelligente e raffinato con la storia e la tradizione letteraria, che si concentra la seguente intervista ad Andrea Tarabbia. Come ci ha raccontato in una delle risposte più articolate, accanto ai tre libri che abbiamo citato, vanno posti anche due importanti saggi come “La buona morte” (Manni, 2014) e “Il peso del legno” (NNeditore, 2018). Il primo è un reportage sull’eutanasia in Italia intervallato da squarci biografici che si soffermano sulla malattia del nonno, esperienza per lui determinante sia come uomo, sia come scrittore. Ne “Il peso del legno” invece Tarabbia si interroga, cercandone il senso profondo, sul racconto della crocifissione di Cristo contenuto nei quattro Vangeli e sui personaggi che lo attraversano. Un libro questo fondamentale per capire “Madrigale senza suono” con il quale condivide un’ampia parte di bibliografia nonché molti temi come il rapporto padri-figli, la colpa, il dolore, la morte.

Che effetto le ha fatto vincere il Premio Campiello dopo averlo sfiorato nel 2016 cono "Il giardino delle mosche?
Guardi, sono ancora abbastanza frastornato. Per tutta la giornata della finale ho avuto delle sensazioni molto positive, ma quando è stato pronunciato il mio nome sul palco della Fenice non ci volevo credere. Sono molto contento, ma non sono bravo a fare discorsi intorno all'"effetto che fa": mi vengono solo cose banali da dire.

Come nasce il suo interesse per Gesualdo da Venosa e la decisione di metterlo al centro di un suo romanzo?
Nasce per caso: prima di vedere un brutto documentario di Werner Herzog a lui dedicato, non lo conoscevo. In seguito, ho iniziato a studiarlo e ad ascoltarlo perché la storia di questo genio musicale che era stato in grado di commettere un omicidio brutale mi ha molto affascinato: sentivo il tema di fondo – se dall’orrore può nascere la bellezza – molto mio.

Come ha lavorato per ricostruire la figura di Gesualdo? E quella di Stravinskij?
L’arrivo di Stravinskij è stato fondamentale per il romanzo, perché mi ha permesso di non fare un semplice romanzo storico – in cui si ricostruire la vita e l’opera del principe – ma un libro che mette in relazione due secoli, due geni e due modi di vedere la musica e il mondo. Gesualdo e Stravinskij sono, per certi versi, l’uno l’opposto dell’altro (uno è istintivo, l’altro è razionale; uno è un autodidatta, l’altro è uno studioso e così via), ma in nome di un comune concetto della musica “dialogano” a distanza, sono l’uno il padre artistico dell’altro. Per costruire questo rapporto li ho dovuti studiare a lungo, leggendo tutto quello che trovavo. La svolta è arrivata quando ho trovato, in alcuni libri di Stravinskij, dei passi in cui parla di Gesualdo e dell’ammirazione che prova per lui. Quei passi sono la base di molto di quello che ho scritto.

Nella vicenda di Gesualdo è difficile capire dove finisca la storia ed inizino le molte leggende che avvolgono la sua figura. Come si è documentato? Come ha cercato di districarsi tra verità storica e leggenda?
È l’aspetto più complesso e insieme più affascinante della figura di Gesualdo: ormai è difficilissimo stabilire che cosa sia davvero accaduto in certi momenti della vita del principe. Tutto è ammantato di leggenda, da secoli si inventano fiabe nere sulla sua condotta, tanto che perfino certi studiosi hanno fatto confusione prendendo per veri certi avvenimenti che sono frutto di leggende popolari. Questo, da un certo punto di vista, per un narratore è una manna dal cielo, perché significa che la storia di cui si sta occupando è viva, ed è stimolante giocare narrativamente su ciò che è vero e ciò che non lo è (il rapporto falso/vero è uno dei temi fondamentali del romanzo): ma proprio per poter mettere in piedi questo gioco è necessario avere perfettamente chiaro che cosa sia storia e che cosa sia leggenda. Sono stato aiutato parecchio da una persona, Giuseppe Mastrominico: Giuseppe, gesualdino e gesualdiano, è probabilmente la persona al mondo che conosce meglio il principe, ha condotto studi storici e filologici su di lui, abita a 50 metri dal castello dove Gesualdo visse i suoi ultimi anni e morì. È stato la mia guida fondamentale, insieme a musicologi e musicisti con cui mi sono confrontato.

Il fatto più noto della vita di Gesualdo è l’assassinio della moglie fedifraga Maria d’Avalos. Lei nel libro suggerisce l’idea che Gesualdo sia quasi stato costretto ad ucciderla per seguire le leggi e le usanze del tempo, discostandosi dall’idea che fosse un demonio. E in ogni caso dice che se fu un Lucifero, fu un Lucifero portatore di bellezza…
La frase su Lucifero è di Stravinskij, io l’ho soltanto ripresa e riusata. Per quanto riguarda l’omicidio, la questione è ancora aperta: Gesualdo voleva uccidere Maria? Secondo certi miti sì, poiché era un demonio. Ancora: Gesualdo amava Maria? Forse no, dopotutto era sua cugina e il matrimonio era combinato. Ma non c’è nulla che confermi queste illazioni. La sola cosa certa è che egli fu “costretto” a uccidere per salvare il casato e perché le convenzioni del tempo glielo imposero. Ma se uccise con soddisfazione o con disperazione è una questione che nessuno risolverà mai. Per parte mia, dovendo fare un romanzo, ho deciso di percorrere una strada che rendeva il personaggio del principe, se possibile, ancora più tragico di quello che è.

“Il demone a Beslan”, “Il giardino delle mosche” e “Madrigale senza suono” si possono considerare una trilogia?
Più che di trilogia – che è un termine improprio, visto che nei tre romanzi non sono contigui per ambiente, personaggi e tempi, parlerei di triade. Mi perdoni se la risposta sarà un po’ lunga, ma mi dà l’occasione per fare un po’ il punto: quando, più di dieci anni fa, cominciai a immaginare quello che sarebbe diventato Il demone a Beslan, avevo in mente di raccontare la storia che ho finito per raccontare e, soprattutto, avevo in mente il modo attraverso cui volevo raccontarla. Ma, per così dire, mi fermavo lì, al libro che mi stava nascendo dalle mani.
Tra il Demone e il Giardino – che è la seconda tappa di questo piccolo viaggio – ho curato la traduzione di Diavoleide di Michail Bulgakov e ho pubblicato La buona morte, un reportage sull’eutanasia. La buona morte è stato scritto in contemporanea con il Giardino: vale a dire che, durante la stesura del romanzo, ho preso una pausa e ho scritto il reportage. Le bibliografie di questi due libri, in modo solo apparentemente sorprendente, coincidono per larghi tratti. Come è possibile?, si chiederà forse qualcuno. È possibile: dopotutto, al di là di quel che si può dire intorno a questi due libri, si tratta di opere che hanno a che vedere in modo piuttosto diretto con l’idea di morte. Ma non solo: La buona morte contiene una piccola parte autobiografica e una serie di riflessioni sulla letteratura che fanno di questo libro il laboratorio per così dire pubblico del Giardino delle mosche. Ecco, forse tutto nasce proprio durante la pausa che, quattro o cinque anni fa, mi presi dalla scrittura del Giardino per realizzare questo reportage: scrivendo di eutanasia, mi resi improvvisamente conto che non stavo, dopotutto, scrivendo un libro diverso dal Giardino, e che i temi e gli argomenti e la voce che stavo usando per La buona morte erano fratelli dei temi, degli argomenti e della voce che avevo usato nei romanzi. Nella Buona morte facevo, per così dire a carte scoperte e senza troppi artifici narrativi, quello che avevo fatto nei due romanzi: usavo tutta la letteratura di cui ero capace per affrontare la morte, il dolore (mio e degli altri) e, se rileggo dei passi di quel reportage, vi trovo quasi letteralmente gli appunti che nei mesi precedenti avevo preso per la mia storia di Čikatilo. Insomma: nella Buona morte, per chi lo sa leggere, c’è il making of del Giardino.
Lo stesso meccanismo si è ripetuto questa volta: quando, nel 2014, cominciai a raccogliere i materiali e a immaginare Madrigale senza suono – ed ero ormai consapevole che almeno tre delle mie opere (le più importanti) erano parenti stretti e, in qualche modo, sapevo che il romanzo che avrei scritto doveva ampliare questa famiglia – non avevo in mente di concepire e scrivere Il peso del legno. Invece, di nuovo, la stesura di Madrigale, a un certo punto, si è interrotta, e dalla penna è uscito un saggio narrativo, fortemente autobiografico e colmo di riflessioni sulla letteratura e sullo scrivere. Nel Peso del legno, come mi era già accaduto, c’è il laboratorio del libro che verrà: sotto il cappello di una ricerca che è letteraria, biografica e di senso, io racconto come è nato Madrigale, e lo racconto mentre lo sto ancora scrivendo.
Va da sé, poi, che i tre romanzi che, come dicevo, compongono una triade ma non una trilogia, dialoghino incessantemente tra loro: è evidente che hanno temi affini e voci affini; soprattutto, è evidente che sono costruiti su voci narranti che, ciascuna a suo modo, vengono “disturbate”, su punti di vista incerti e fallibili, su riscritture e rimuginamenti. Insomma, i tre romanzi sono fratelli, ma ci sono almeno due cugini che fanno il controcanto, e lo fanno mettendo in scena l’autore, che per forza di cose nei romanzi rimane nascosto.
A chi mi ha chiesto e mi chiede perché il Giardino o Madrigale siano scritti nel modo in cui sono scritti posso dire che nessuno dei miei libri è un’opera sola, isolata, ma è qualcosa che dialoga con il libro che l’ha preceduta e con quello che si è messo a nascere mentre l’opera di cui parlo veniva scritta. Nella mia visione, benché sia perfettamente consapevole che tutti i miei libri sono opere che si possono leggere in modo indipendente, leggere solo il Giardino o solo il Demone significa vedere soltanto una parte del problema, non la sua totalità. I libri sono tanti, l’opera è una.

Come mai nei suoi libri sente sempre il bisogno di partire dalla storia?
A questa domanda c’è una risposta stupida e una più intelligente. Quella stupida è che le biografie dei personaggi storici mi consentono di non dover inventare una trama. In verità, detta più seriamente, come lettore mi accorgo che una storia non completamente inventata ma che ha una base storica mi piace di più. “Moby Dick” ad esempio, è certamente un romanzo di fantasia però è stato scritto dopo tre anni di navigazione in giro per il globo da parte di Melville. Quindi conosce le cose che racconta. Per me è fondamentale che ci sia un gancio con la realtà. A me sembra che nella storia e nella vita reale abbiamo un sacco di esempi di vite che sono in qualche modo paradigmatiche. Trovo giusto da parte di chi scrive portare alla luce queste storie, come se fosse una specie di compito. Parte del mio lavoro consiste nel pescare dal magma delle storie del passato qualcuno che ha fatto delle cose che sono dei paradigmi di come siamo fatti noi, e dargli un vestito letterario. Probabilmente questo mi viene da Dostoevskij, che prendeva spunto per le sue storie da fatti di cronaca, li rielaborava, li rimasticava, li stravolgeva perfino: ma si può trovare un articolo di un giornale dell'epoca con dentro la notizia di qualcuno che, per esempio, ha uscciso una vecchia con una scure.

Cosa l’ha portata a scegliere come narratore principale Gioachino, il nano deforme che scrive la cronaca sulla vita di Carlo Gesualdo, ritrovata da Stravinskij?
L’idea di dover avere un narratore interno alla storia ma che fosse a suo modo onnisciente e potesse andare ovunque, perfino nella testa del protagonista: avevo bisogno di una sorta di demonietto inafferrabile che facesse da controcanto al principe. E poi, per continuare il discorso cominciato nella risposta precedente: nel Demone ho un narratore in prima persona che racconta di sé ma viene contraddetto da altre due voci; nel Giardino ho una voce monologante che viene per così dire “ribaltata” nella parte finale del romanzo; qui dovevo trovare un terzo modo di raccontare, ed è nato questo narratore storto che osserva e racconta in terza la vita del protagonista.

Il romanzo in fondo avrebbe potuto limitarsi alla cronaca di Gioachino sulla vita di Gesualdo. Lei però ha inserito anche Stravinskij come altra voce narrante del libro. Per quale ragione?
In parte credo di aver già risposto a questa domanda poco sopra. Non mi interessa fare romanzi storici: mi interessa fare romanzi in cui dialogano mondi e in cui una voce metta in discussione l’altra.

Stravinskij, pur essendo respinto da alcuni aspetti della vita di Gesualdo, lo sente come un padre. Il suo in effetti può essere definito come un romanzo che, in un certo senso, parla di padri e di figli…
Senza dubbio. Qualcuno ha notato una cosa che per me era molto importante si notasse: per una volta, nella storia di Gesualdo pesano di più le morti dei figli che quella della moglie. All’inizio del romanzo arriva la notizia della scomparsa del primogenito Emanuele – colui che dovrebbe, per successione, prendere in mano il regno e continuare il cognome: capito che non avrà eredi maschi, Gesualdo si chiude nel suo studio e si lascia morire d’inedia. Ci mette una ventina di giorni, durante i quali Gioachino scrive la sua cronaca. Ma c’è un altro figlio che muore e che cambia le sorti del principe: il piccolo Alfonsino, in seguito alla cui morte Gesualdo comporrà gli unici Canti sacri e Responsori della sua produzione. Insomma: la scomparsa di un figlio porta la morte, la scomparsa dell’altro cambia la musica. A me questi due aspetti parevano fondamentali.
Poi c’è l’altra questione legata alla paternità: il rapporto Gesualdo – Stravinskij. Stravinskij sente il principe come un “padre”, ma è combattuto. Si chiede continuamente: può un assassino, per quanto di genio, essere un padre, essere mio padre?

Stravinskij dice che la somiglianza tra lui e Gesualdo sta nel cercare qualcosa di mai udito attingendo a piene mani da ciò che è già stato udito. Non esiste una creazione totalmente nuova che non poggi su qualcosa. Questa frase, valida per qualsiasi creazione artistica e ben lontana dall’idea del genio artistico di stampo romantico che crea dal nulla, rispecchia la sua visione?
Sì, è una cosa che pensavo fosse ovvia da dire, invece sto notando che molte persone hanno ancora un’idea romantica (vale a dire vecchia di due secoli) della creazione artistica. C’è ancora il mito dell’artista creatore, tutto preso da un certo furore mistico e che crea in una stanza buia, sudando e spasimando e provando emozioni che solo lui sa provare. Tutto questo è, probabilmente e mestamente, figlio della dittatura delle emozioni che impera oggi. Ma nessuno, e dico nessuno, ha mai creato in quel modo: non si crea sulle nuvole, ma in una bottega – tant’è vero che anche gli autori romantici scrivevano e riscrivevano le loro opere. Verrebbe da chiedersi: ma come? Eri tutto preso dall’afflato divino, dall’Ispirazione, e hai fatto tre versioni del poema, l’hai riempito di correzioni, l’hai fatto leggere agli amici prima di pubblicarlo? Si crea sulla base di un’idea, di una intuizione: ma poi c’è il lavoro, la riflessione, la citazione, il rapporto con la tradizione (padri e figli e di nuovo, a ben vedere). Niente nasce dal niente. Chi ha un’idea romantica del genio vive in realtà fuori dal tempo: è come se girasse in carrozza o non avesse l’acqua corrente in cucina.

Varie volte nel corso del romanzo Stravinskij dubita dell’attendibilità della voce di Gioachino definendo la sua cronaca un apocrifo e arrivando addirittura ad ipotizzare che Gioachino altro non sia che una proiezione e una maschera dietro la quale si nasconde lo stesso Carlo.  Questa riflessione sull’attendibilità della voce narrante è davvero interessante…
…ed è uno dei temi fondamentali non solo del romanzo, ma del lavoro narrativo che ho fatto fin qui. Nessuna delle mie voci narranti è certa e pienamente attendibile, tutto è sempre messo in dubbio e passibile di contraddizione. Non mi interessa raccontare un evento, ma tutte le possibili versioni di quell’evento. Qui ho giocato sul topos del “manoscritto ritrovato” – che è così fondativo per la letteratura italiana – e il gioco è stato appunto metterlo costantemente in discussione.

In un passaggio del romanzo Carlo invidia Tasso per il suo dolore e per la sua pena di vivere e dopo la morte di Alfonsino dice che questo gli permetterà di comporre come mai prima. L’arte secondo lei è figlia del dolore e del tormento?
Non necessariamente. C’è, credo, una matrice oscura nella voglia di raccontare e raccontarsi, ma non è una regola. Nel caso di Gesualdo mi pareva evidente che ci fosse, ma mi pare evidente anche un’altra cosa – la dice Stravinskij a un certo punto: esiste una felicità anche dentro la creazione più cupa, c’è una gioia anche nell’orrore. Questo è fondamentale. Nello Sciascia più nero e sconsolato si percepisce la felicità, il piacere con cui ha scritto. In questa relazione, in questa felicità che ci può essere anche nella maggiore cupezza, c’è il segreto della grande letteratura.

Nei suoi libri, e in quest’ultimo in modo rilevante, si nota una forte insistenza sugli aspetti più terragni, più bassi, più corporei dell’esistenza. In particolare il corpo umano è sempre minuziosamente indagato e descritto, anche negli aspetti più ripugnanti. Come mai?
Perché siamo fatti di corpo, di liquidi, di tensioni, di nervi. Li portiamo ovunque e sono il filtro attraverso cui guardiamo il mondo e lo abitiamo. I bisogni, i dolori ma anche le gioie del corpo sono la prima cosa, sempre: se ci stanno dando il Nobel ma dobbiamo andare in bagno, la nostra preoccupazione fondamentale sarà trovare una toilette, non certo quella di salutare il re di Svezia secondo il protocollo. Descrivere i corpi è dire chi siamo e come stiamo. Tutto qui.

Il tema del male, presente in tutti i suoi libri, è strettamente connaturato qui con quello della bellezza. Cosa la affascina di questo tema? Sembra tra l’altro che il periodo più fulgido e creativo di Gesualdo cominci proprio dopo l’assassinio della prima moglie…
Non saprei spiegarlo, ma è così da sempre. Non bisogna però cadere nell’errore che hanno fatto molti a proposito di Gesualdo, vale a dire di pensare che l’omicidio e forse il senso di colpa siano stati il motore per la sua musica. Non abbiamo elementi per poterlo dire con certezza.

Il libro ha aspetti fortemente gotici, soprattutto attraverso la vicenda di Ignazio tenuto come una bestia nei sotterranei del castello e quella della serva amante Aurelia, che con Polissena incarna una sorta di strega. Per quale ragione ha dato un rilievo così ampio agli aspetti gotici?
Perché mi divertiva l’idea delle segrete e di un figlio strappato dal ventre di Maria morente: è una rielaborazione di una delle tante leggende su Carlo e Maria. Qualcuno scrisse che lei era incinta dell’amante quando morì; altri dissero che il vero motivo dell’assassinio fu che lei aveva già partorito un bambino che somigliava a Fabrizio Carafa e che, dopo la sua morte, il bimbo fu fatto morire di stenti da Gesualdo. Niente di questo è vero, ma come dicevo prima scrivere un romanzo di questo tipo è tenere conto dei dati storici e di quelli leggendari e trovare il modo di farli convivere. Ecco, la convivenza che ho trovato è quella di Ignazio e della strana trinità che compone insieme a Gioachino e al principe Carlo.

Ignazio, mostruosa creatura reclusa nei sotterranei del castello, è costruito a partire dalla leggenda secondo la quale Maria, al momento dell’assassinio, era incinta. Cosa voleva rappresentare con questo personaggio?  Può essere visto come il simbolo dei mostri che abitano l’inconscio di Carlo Gesualdo? O per lei aveva qualche altro valore simbolico?
È la colpa, ma anche la malattia (meglio: l’ipocondria) di Carlo, la sua ossessione. Il principe, tramite Gioachino, se ne prende cura. Ma Ignazio è un personaggio talmente vago che il lettore può riempirlo con ciò che crede. L’importante è che esista e che sia laggiù, con il suo campanellino alla caviglia e il suo corpo non completamente formato.

Aurelia è un personaggio davvero esistito o l’ha inventato? E Maria Polissena? Con loro entra nel romanzo il tema delle streghe che sarà centrale nel Cinquecento con la Controriforma…
Sono esistite entrambe. La loro storia è vera e documentata. Io l’ho soltanto romanzata.

A parte la musica, quella di Carlo è la vita di uno sconfitto, non a caso morirà senza eredi, nonostante abbia fatto tutto quello che poteva per continuare la dinastia, in quanto i suoi due figli maschi, Emanuele e Alfonsino moriranno entrambi prima di lui.
I grandi momenti della vita di Carlo non dipendono da lui, mai: è in seminario e viene richiamato (controvoglia?) perché muore suo fratello e dunque deve imparare ad amministrare il regno; fa due matrimoni combinati (il primo finisce come sappiamo, il secondo, con una d’Este è solo per opportunità politica) che tra l’altro non è mai lui a combinare, ma qualcuno che decide in sua vece; gli muoiono due figli; l’unica vera, autentica decisione che prende, a parte quella della musica, è lasciarsi morire.

Tanto lei è prodigo di descrizioni e di attenzioni per Maria d’Avalos quanto è scarno e asciutto per quanto riguarda la seconda moglie di Gesualdo, Leonora d’Este… Con questo voleva accentuare l’insignificanza di questa donna e il suo ruolo per così dire marginale nella vita di Gesualdo?
Sì. Maria era famosa per essere la donna più bella di Napoli: pare fosse tanto bella che su di lei sono nate storie poco edificanti anche dopo che era morta. Non è detto che Carlo non l’amasse, e in ogni caso la storia con lei è uno dei centri nevralgici della sua vita. Di Leonora d’Este importa poco sia a Carlo che a me: di fatto contano di più il figlio che lei e Carlo ebbero (Alfonsino) e il fatto che, grazie al matrimonio, si aprirono per il principe, finché non se ne stufò, le porte di Ferrara – città allora sulla via della decadenza ma che era ancora una delle capitali musicali d’Europa.

Nel libro i rapporti tra il principe e le donne si riducono spesso a una dimensione sessuale per Maria e Aurelia o assenza con Leonora. Perché ha dato questo peso così rilevante a questa dimensione?
Per la questione dei corpi di cui sopra, perché così traspare dalle lettere e per far vedere come una delle principali caratteristiche di Carlo Gesualdo è la bulimia: a tavola, al liuto, alla spinetta e nel letto. Non credo però che i rapporti tra il mio principe e le sue donne si limitino alla sfera sessuale: c’è desiderio, anche, e seduzione, e una complicità – con Maria finché le cose non precipitano e con Aurelia finché lei non commette degli errori – che esula dalla questione dei corpi.

Nello scrivere questo romanzo, quali problemi stilistici si è posto?
Uno fondamentale: quale lingua deve usare Gioachino? L’italiano del Seicento? Diventerebbe un libro illeggibile e crollerebbe miseramente tutto il discorso sul testo apocrifo o meno. Ho optato – grazie allo stratagemma di Stravinskij che legge il testo in una traduzione contemporanea – per una lingua con echi e costrutti del passato ma fruibile dai lettori di oggi.

Carlo Gesualdo si lamenta del fatto che il numero delle note sia finito mentre lui vorrebbe una musica infinita. Per Stravinskij invece è bene che ci siano dei limiti che permettono comunque possibilità vastissime. Tarabbia a quale visione si sente più vicino?
È un altro modo di riproporre la vecchia diatriba romantici/contemporanei di cui sopra. Non si scrive al buio, ma si traccia il percorso dentro cui si camminerà.

Dentro questo libro si nota un dialogo continuo con la nostra tradizione, per il romanzo epistolare ad esempio “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” di Foscolo, per quanto riguarda invece il manoscritto ritrovato viene in mente Manzoni e “I promessi sposi”. Sono due riferimenti a cui voleva fare esplicito riferimento? A quali altri modelli si è ispirato per questo libro?
Sì, più Manzoni che Foscolo, in realtà. In Madrigale senza suono ci sono echi di Bulgakov, Kazantzakis, Malaparte, Volponi, Melville, Shakespeare (in particolare Macbeth e La tempesta), Herling (Madrigale funebre, uno dei suoi ultimi racconti, è dedicato a Gesualdo), Bruno (De infinito universo e mondi in particolare), Canetti (il cognome di Gioachino, Ardytti, è una storpiatura del cognome di sua madre), Testori, Mann (il Dottor Faustus, naturalmente), Andreev, Bufalino, Sebald, Starobinski, Dostoevskij, Hugo (L’uomo che ride), Freud, Balzac, Mari, Pomilio (Il quinto evangelio), Yourcenar (L’opera al nero), Eco, Casanova e altri, ma in misura minore.

Nel libro, soprattutto nella parte legata a Stravinskij compaiono degli strani animali: una scimmia, una foca e poi un misterioso cane che li porta alla libreria antiquaria dove Stravinsky acquisterà il resoconto segreto sulla vita di Carlo Gesualdo. Quale ruolo hanno queste inserzioni animali?
C’è un piccolo bestiario in ogni mio romanzo: nel Demone a Beslan erano scarafaggi e scolopendre e un gattino, nel Giardino delle mosche erano le tortore. Qui comincio con una scimmia e una foca: sono cose realmente accadute a Stravinskij nella sua villa di Los Angeles. Poi ci sono un cagnetto nero (evidente riferimento al Dottor Faustus) e cavalli, lupi e un gabbiano (in una scena che, mesi dopo aver pubblicato il libro, ho improvvisamente capito essere un rifacimento della scena con la tortora nel Giardino). Mi piace che le mie scene vengano a volte raccontate dall’occhio inconsapevole e metaforico degli animali.

Non è la prima volta che la musica ha un ruolo centrale in un suo romanzo. Era già successo con “Marialuce” Da dove deriva questa fascinazione per la musica?
Non saprei. Forse dal fatto che un po’ suonicchio, ma in realtà non volevo fare, dopo Marialuce, un altro romanzo sulla musica: è stato Gesualdo a imporsi.

Gesualdo è un credente eppure la sua religiosità è qualcosa di codificato dalle regole del tempo, accettata nella sua rigida ritualità. La sua religiosità, per quanto tormentata, sembra mancare di profondità. È d’accordo con questa visione?
Non saprei. Non sono in grado di giudicare la religiosità degli altri, soprattutto se sono morti da quattro secoli. Pare che le opere penitenziali che commissionò fossero sincere, così come l’intento con cui fece edificare la chiesa di Santa Maria delle grazie o compose i canti sacri. Ma più in là non oso spingermi.

Nell’ultima parte della sua vita sembra che Carlo entri in una fase di pentimento e di espiazione, non a caso commissiona anche la famosa “La pala del perdono”. Che cosa vuole espiare secondo lei? Per cosa si sentiva in colpa? Era sincero a suo avviso il suo pentimento?
Non so se sia corretto dire così: le sue prime composizioni, quando ha meno di vent’anni e non ha ancora ucciso, sono già su testi penitenziali: ovviamente, questo fa parte di una tradizione a cui lui si conforma, ma nulla ci vieta di pensare che non fosse sincero. È un uomo che fa tutto ciò che il suo tempo impone (preghiera, pentimento e omicidio compresi), ma sarebbe superficiale sostenere che faccia tutto questo con leggerezza “perché è così che si fa”.

Ne “La buona morte” lei racconta la malattia di suo nonno e di come questo evento sia stato decisivo per la sua vita. In che modo questo fatto ha a che fare con la sua scrittura?
Due sono i libri in cui io provo ad andare alla radice del lavoro che faccio: “La buona morte” e “Il peso del legno" -, quest’ultimo tra l’altro è un libro di bilancio perché scritto quando ho compiuto quarant’anni. Credo che se mio nonno non si fosse ammalato, io non avrei mai pensato di scrivere nella mia vita. Lui si è ammalato nel 1990, quando avevo 12 anni, ed è morto nel 2005. È rimasto paralizzato nella parte destra del corpo e non ha più parlato. Questo per me ha rappresentato un prima e un dopo: il nonno prima c’è, poi non c’è più nel modo in cui io l’avevo conosciuto. Ho questa immagine di me che va a trovarlo a casa sua quando avevo 13, 14 anni e mentre lo guardo in silenzio cerco di entrare nella sua testa e guardare me con i suoi occhi: chissà cosa pensa di me lui che ora ha questo sasso nella testa, chissà come mi vede. Ecco, l’idea di mettermi nella testa di un altro malato viene da lì. Tutte le volte che mi viene chiesto da dove arrivano le mie storie, da dove arrivi la mia attrazione per il male, la malattia, il dolore, tutte le volte mi viene in mente questa scena.
               
Dopo “Madrigale senza suono” ha già in mente quale sarà il prossimo libro a cui lavorerà? Se sì può dirci qualcosa?
Non ho idee, ma per me è normale. Tra un libro e l’altro metto sempre un vuoto di uno o due anni. Non è una cosa che scelgo di fare: ho soltanto capito e accettato che, dopo gli anni di lavoro che mi costa un romanzo, ho bisogno di non scrivere per un bel po’.

Come sta secondo lei la letteratura italiana oggi?
Nonostante quello che si dice, la letteratura italiana contemporanea sta bene anche se forse non lo sa. Il problema è che si portano sugli altari le persone sbagliate. Esistono grandissimi scrittori di cui si parla pochissimo. Penso che Filippo Tuena, Laura Pariani e Angela Bubba (scrittrice di cui probabilmente pochissimi hanno sentito parlare) siano tre autori straordinari.



ANDREA TARABBIA è nato a Saronno nel 1978. Ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi "La calligrafia come arte della guerra" (2010), "Il demone a Beslan" (2011), "Il giardino delle mosche" (2015; Premio Selezione Campiello 2016 e Premio Manzoni Romanzo Storico 2016) e i saggi "La buona morte" (2014) e "Il peso del legno" (2018). Nel 2012 ha curato e tradotto "Diavoleide "Di Michail Bulgakov. "Madrigale senza suono", uscito nel 2019 per Bollati Boringhieri, ha vinto l'ultima edizione del Premio Campiello. Vive a Bologna.




22 luglio 2019

"I topi grigi. Il romanzo cinematografico di Za la Mort" di Denis Lotti

(Articolo apparso sul Giornale di Vicenza il 21 giugno 2019)

di Fabio Giaretta

Dopo aver contribuito in modo decisivo alla riscoperta di Emilio Ghione con “L’ultimo apache”, il vicentino Denis Lotti, docente di storia del cinema all’Università di Padova, torna a confrontarsi con questa figura cardine del cinema muto italiano attraverso il saggio “I Topi Grigi. Il romanzo cinematografico di Za la Mort” (Mimesis, pagg. 98). In questo nuovo libro Lotti concentra la sua analisi sul serial in otto puntate, intitolato “I Topi Grigi”, scritto, diretto e interpretato da Ghione, che debutta in sala il 6 giugno 1918, mentre l’esercito italiano sta per affrontare la battaglia del Solstizio contro gli austriaci (15 - 24 giugno 1918). Protagonista è l’apache parigino Za la Mort, eroe oscuro dalle nobili origini, il quale, persa ogni ricchezza a causa di un parente disonesto, decide di vivere nei bassifondi parigini, tramutandosi in un misterioso vendicatore e tutore dell’ordine. Accanto a Za la Mort, che nel gergo sprezzante della malavita significa “Viva la morte”, troviamo l’amata Za la Vie, interpretata da Kally Sambucini, a cui Ghione fu legato anche nella vita. Il serial, tra i più lunghi dell’epoca e appartenente ad un ciclo di trentasei titoli complessivi dedicati a Za la Mort, prende le mosse da una busta nera posseduta dai Topi Grigi, una banda di ladri guidati da Grigione, che svelerebbe l’identità di un ragazzo salvato dall’apache parigino. Il tentativo di recuperare la busta dà il via a molte peripezie che portano l’eroe a viaggiare nelle più diverse ed esotiche parti del mondo.
Gli elementi più interessanti di questo ambizioso prodotto, realizzato con mezzi artigianali per un vasto pubblico, sono la contaminazione di stili e generi (legati per lo più alla letteratura popolare dell’Ottocento, soprattutto d’oltralpe), la visione globetrotter piuttosto rara nel nostro cinema, la forza espressiva della recitazione di Ghione “che colma le lacune tecniche di una regia che si limita a stabilire il punto di vista”, e l’uso, seppur ancora embrionale, del cliffhanger, cioè la sospensione e il collegamento tra le puntante per tenere alta la suspense. 
“I Topi Grigi” ha avuto una notevole fortuna critica soprattutto grazie ad un articolo di Umberto Barbaro che colpito dalla messa in scena, a suo dire, molto più realistica dei film del tempo, coniò l’etichetta di Neo-realismo destinata ad essere ripresa, con un valore ben più pregnante, per identificare un’irripetibile stagione del cinema italiano. A testimoniare la presenza nell’immaginario di questo serial è anche una poesia di Sanguineti intitolata FILM/A/TO e dedicata a vari film tra cui I Topi Grigi: “il ladro gentiluomo è proprio un gentiluomo: è Za-la-Mort: / ma i Topi Grigi sono topi, proprio: e poi c’è Za-la-Vie:”.


Denis Lotti insegna Studi sull’attore nel cinema presso l’Università degli Studi di Padova e Caratteri del cinema muto presso l’Università degli Studi di Udine. Si occupa di storia del cinema italiano, in particolare del cinema muto. Fra l’altro, ha pubblicato le monografie L’ultimo apache. Emilio Ghione, vita e film di un divo italiano (2008), La documentazione cinematografica (con Paolo Caneppele, 2014), Muscoli e frac. Il divismo maschile nel cinema muto italiano (2016), nonché le curatele Za la Mort (2012) e Quattro anni fra le “Stelle” (2017). È protagonista del documentario Rai Sperduti nel buio (2014).

"Emilio Ghione. L'ultimo apache. Vita e film di un divo italiano" di Denis Lotti



(Articolo apparso sul Giornale di Vicenza)

di Fabio Giaretta

Pochi, anche tra gli studiosi e gli appassionati di cinema, ricordano oggi il nome di Emilio Ghione, una delle personalità più interessanti del cinema muto italiano. Dopo avergli dedicato una tesi di laurea, vincitrice del Premio internazionale Filippo Sacchi 2007, e alcuni articoli, il vicentino Denis Lotti, docente di storia del cinema all’Università di Padova, ha pubblicato il saggio Emilio Ghione. L’ultimo apache. Vita e film di un divo italiano (Cineteca di Bologna, 206 pp., euro 14), che rappresenta un contributo decisivo per la riscoperta di questa figura. 
Ghione fu attore, regista, sceneggiatore, scrittore, divo. Fu anche il primo storico del cinema italiano muto, al quale dedicò il saggio La Parabole du Cinéma italien, pubblicato postumo in Francia. In lui si rispecchia la parabola del cinema muto italiano, dal suo massimo sviluppo al suo inarrestabile declino. Lotti ricostruisce con grande rigore la sua vita, le sue opere, il contesto culturale, produttivo e cinematografico nel quale visse, attraverso la minuziosa esplorazione di moltissimi documenti filmici e extra-filmici conservati in archivi italiani e stranieri.  Tra i vari materiali rinvenuti e raccolti da Lotti, grande importanza riveste l’autobiografia di Ghione, Memorie e confessioni, pubblicata a margine della rivista “Cinemalia” da marzo a dicembre 1928, e utilizzata per la prima volta in uno studio sull’attore e regista.
Emilio Ghione nasce a Torino il 30 luglio del 1879. Per tutta la giovinezza segue il mestiere del padre, Celestino Ghione, che di professione fa il pittore, e si specializza nella miniatura. Il debutto cinematografico avviene nel 1909, in un film di cui non si conosce il titolo, nel quale interpreta, per pochi istanti, la parte di un guerriero a cavallo. Ottiene i primi successi personali nel 1911 con La Gerusalemme liberata e Il poverello di Assisi, entrambi diretti da Enrico Guazzoni. La recitazione di Ghione si caratterizza fin da subito per il suo carattere antiteatrale e per la tensione drammaturgica comunicata attraverso l’uso totale del corpo.  Nel 1913 esordisce anche come regista con Il circolo nero e Idolo infranto. Nel 1914 si ha l’esordio cinematografico di Za la Mort, nel film Nelly la gigolette, personaggio che otterrà un enorme successo e a cui Ghione deve buona parte della sua fama. Nella sua vasta filmografia, oggi in gran parte perduta, ma accuratamente ricostruita e analizzata da Lotti, i film che hanno per protagonista Za la Mort sono ben diciassette. Quattro di questi, ovvero Il triangolo giallo (1917), I topi grigi (1918), Dollari e fracks (1919) e Zalamort. Der Traum der Zalavie (1924) hanno la struttura del serial a puntate.
Ghione inventa questo personaggio rifacendosi alle storie degli apache parigini che godono di successo duraturo dalla metà del XIX secolo almeno fino alla prima guerra mondiale. L’appellativo apache viene riferito agli abitanti del demi monde, ovvero i bassifondi degradati di Parigi che tanto spazio hanno in molta letteratura d’appendice. Altre parentele illustri sono quelle con Arsène Lupin e con Fantômas, soprattutto per l’eccellenza di Za la Mort nell’arte del travestimento. La maggioranza dei film della serie vede l’apache nel ruolo di eroe giustiziere e difensore dei deboli. Strettamente connessa a Za la Mort, che nel gergo sprezzante della malavita significa “Viva la morte”, è la figura di Za la vie, compagna dell’eroe oscuro, interpretata da Kally Sambucini, a cui Ghione fu legato anche nella vita. La saga di Za la Mort presenta però varie incongruenze tanto che in alcuni film, come in Sua Eccellenza la Morte (1919), egli non appare come il giustiziere votato alla lotta contro il crimine ma come un apache assassino, senza codice morale. Oltre ai film, Ghione dedicò al suo personaggio più celebre anche due romanzi, Za la Mort, pubblicato nel 1925 e L’ombra di Za la Mort, pubblicato nel 1929.
Tra gli ultimi suoi film vanno ricordati La cavalcata ardente (1925) di Carmine Gallone e Gli Ultimi giorni di Pompei  (1926) di Amleto Palermi e Carmine Gallone. Le interpretazioni che Ghione regala in questi due film rimarranno nella memoria collettiva dei posteri. Gli ultimi anni vedono un graduale declino, per Ghione è difficile ottenere una semplice scrittura anche come comparsa ed è costretto suo malgrado ad accettare di recitare in teatro. Muore il 7 gennaio del 1930 alla presenza di Kally Sambucini e del figlio Piero. La salma è tumulata il giorno 11 gennaio nel cimitero del Verano in Roma, in un loculo ancora presente. Lo scolorito epitaffio recita: portò glorioso per il mondo / il nome dell’arte muta italiana / artista e signore / ne seguì la dolorosa sorte dalla ricchezza giunse alla povertà / l’affetto di pochi fu l’ultima sua gioia.

16 luglio 2019

Intervista a Stefano Massini per "Qualcosa sui Lehman"


Mi piace pubblicare, seppur con un ritardo di due anni, questa intervista a Stefano Massini, nata in occasione del tour Premio Campiello 2017 per lo straordinario e geniale romanzo “Qualcosa sui Lehman”. Una versione assai più ridotta di questa è uscita sul Giornale di Vicenza. Molto era rimasto da sbobinare di una lunga intervista telefonica ad Asiago, fatta in auto con il sole cocente di luglio che arroventava sempre più l'abitacolo mentre un cane abbaiava senza sosta sovrapponendosi alla parole di Massini. Finalmente ho trovato il tempo.



Per Stefano Massini, autore del sorprendente e corposo romanzo “Qualcosa sui Lehman” (Mondadori, pagg. 773), la letteratura deve sempre avere anche un fine pratico, deve cioè aiutare a capire la realtà che ci circonda. In tal senso la storia dei Lehman Brothers è in grado di darci una nitida fotografia della nostra società nella quale la ricchezza è divenuta il metro di valutazione di ogni cosa. In questo libro, che trascende volutamente qualsiasi genere, lo scrittore e drammaturgo fiorentino racconta, in modo avvincente e senza mai scadere nella retorica, l’epopea dei Lehman dal 1844, quando il fondatore Henry parte dalla Germania e sbarca in America, fino al rovinoso crollo del 2008. In mezzo tre generazioni di uomini che via via si allontanano dalle loro radici, sostituendo i riti della cultura e della religione ebraica, di cui Massini si rivela profondo conoscitore, con quelli del capitalismo più cinico e sfrenato.
Come mai ha scelto di affrontare un tema così ostico come quello della finanza attraverso la storia dei Lehman?
La risposta è semplicissima: perché mi sono reso conto che, da estraneo al mondo dell’economia, c’era soltanto una pagina, un fascicolo di ogni quotidiano che saltavo a piè pari perché non lo capivo ed era l’insieme delle pagine riguardanti l’economia. Questa parte del giornale la saltavo come se proprio rinunciassi a capirla e credo che sia una cosa che fanno in molti. Ad un certo punto mi sono però reso conto che era una cosa completamente senza senso perché poche cose in realtà avevano una ricaduta su di me come l’economia: io pagavo il mutuo, avevo delle ritenute sullo stipendio per cui in qualche modo ero profondamente collegato al tema dell’economia, aveva delle conseguenze profonde sulla mia vita quotidiana. È come se noi rinunciassimo a capire il linguaggio dei medici perché è poco comprensibile ma in realtà ci parlano di qualcosa che riguarda la nostra salute cioè una cosa alla quale teniamo. Ecco è un po’ lo stesso. E allora ho deciso di scrivere qualcosa sull’economia che servisse un po’ a spiegarla con parole semplici. Da qui è nata la scelta di raccontare una storia di economia attraverso il filtro di una grande storia familiare, di una grande storia di esseri umani che ce la mettono tutta per affrontare i loro problemi e le sfide della società in cui vivono.
Lei all’inizio del libro scrive, riferendosi ai Lehman, che non tutti potranno dire di essere divenuti una metafora. Che metafora rappresentano a suo avviso?
Sono una metafora enorme di un fenomeno al quale tutti abbiamo prestato pochissima attenzione ed è il fatto che nel corso del Novecento siamo passati – e questo la storia dei Lehman lo racconta molto bene – da una società bassata ancora sulla materia, sulla concretezza (nel caso dei Lehman cominciano a lavorare il cotone, poi passano al caffè, al petrolio, tutte cose concrete, che puoi toccare, sono insomma delle merci) al disprezzo per tutto ciò che era materia, concreto, merce, e senza che ce ne rendessimo conto il denaro ha iniziato ad essere usato non per finanziare delle merci ma per comprare altro denaro, il denaro che  finanzia altro denaro e si è entrati in un mondo completamente scisso dalla realtà in cui tutto è numerico, astratto, è un valzer di numeri. Questo è evidente nella storia dei Lehman che sono passati da un negozio di stoffe ad una grande holding internazionale.
Il libro racconta la scalata economica dei Lehman Brothers attraverso tre generazioni. In che modo si è documentato per questo libro? Quali sono le fonti storiche a cui ha attinto? Dove finisce la realtà storica e comincia la finzione?
Mi sono documentato tantissimo, è stato un lavoro enorme. I personaggi che io racconto sono tutti assolutamente veri, reali, non solo sono assolutamente veri e reali ma anche i lineamenti del loro carattere, i modi di essere, sono veri i matrimoni, è vero tutto quanto. Ci ho messo un anno a informarmi prima di scrivere questo tomo così enorme. L’ho fatto perché dobbiamo tener presente che negli Stati Uniti pronunciare il nome Lehman è un po’ come se in Italia tu pronunciassi il nome Agnelli. Di queste famiglie si conoscono le vicende, i figli, le dinamiche, i matrimoni. Negli Stati Uniti c’è una ricca produzione riguardante la famiglia Lehman che qui da noi ovviamente è meno famosa non essendo una famiglia italiana. È quindi tutto vero, chiaramente quello che mi sono preso la libertà di inventare e di integrare è l’insieme delle modalità che sono occorse per mostrare quelle personalità. Per cui i modi in cui andarono gli incontri tra queste persone, le parole che questi si dissero, quelle chiaramente sono invenzioni. È una forma di sceneggiatura, ovviamente, però i personaggi sono reali, veri, anagraficamente inappuntabili. Come dicevo prima ci ho messo molto tempo perché c’era una doppia documentazione da fare: da una parte la storia vera della famiglia Lehman, quindi chi erano, com’erano, dall’altra quella legata all’economia, c’era cioè da fare un lavoro di apprendimento da parte mia su come funziona questo mondo che non conoscevo.
In effetti è riuscito nell’intento di rendere molto chiari concetti economici difficili e astrusi…
Questa è una delle cose che mi fanno più piacere. Quando qualcuno viene da me e mi dice: guardi, grazie al suo libro ho capito qualcosa che pensavo non avrei mai capito, per me è fantastico. Sono sempre stato convinto che il teatro da un lato e ora che mi occupo di libri, i libri, debbano sempre avere anche un obiettivo pratico, cioè devono essere utili, devono darti delle forme per concepire e capire l’esistenza di tutto ciò che ti sta ruotando intorno. Non deve necessariamente essere l’economia o una forma di scienza, può anche essere un libro sui sentimenti umani, però deve esserci qualcosa per cui un libro ti è utile. Per me questo è essenziale.
Questo libro mostra anche come tutte le categorie novecentesche con cui noi interpretiamo tuttora la realtà sono venute meno…
La sensazione che ho sempre avuto io è che con il cosiddetto crollo delle ideologie si è in qualche modo imposto inevitabilmente un vuoto che in qualche modo ancora non è stato superato, nel senso che noi tendiamo ancora oggi, purtroppo, a leggere affannosamente la realtà con delle forme di lettura non più adatte. Pensiamo alla politica che sta continuando, ancora oggi, a cercare di risolvere i problemi con la dialettica tra destra e sinistra. Cioè noi non abbiamo ancora superato uno schema interpretativo che evidentemente è novecentesco. Secondo me la storia dei Lehman parla un po’ anche di questo perché racconta che il mondo cambia inevitabilmente e vertiginosamente intorno a chi lo popola, e chi lo abita dovrebbe cercare sempre – e questo, devo dire, gran parte dei Lehman hanno cercato di farlo – di stare in ascolto di che cosa l’umanità stava per chiedere. Questo ascolto si è rivelato poi fondamentale perché hanno saputo prevenire alcune risposte dell’umanità come il computer o quando si inventano quella che allora sembrava un’utopia cioè il fatto che ci potesse essere una società interamente basata sul cinema. Chi potrebbe mai pensare, compreso me, che una banca in realtà è artefice di capolavori del cinema o di carriere di attori? Da un certo punto di vista, questa, questa è la forza dell’economia.
Perché ha usato il termine “qualcosa” nel titolo? In verità il libro racconta ampiamente e con molti dettagli la scalata di questa famiglia…
È un titolo ironico infatti. C'è una cosa che a me preme molto e a cui penso frequentemente in questo ultimo mese e mezzo di Campiello: sono molto contento di essere arrivato finalista al Premio Campiello intanto perché era la prima volta che scrivevo un libro e già essere arrivato nella Cinquina dei finalisti è un successo; ma anche perché alla fine il Veneto così come la Toscana dalla quale io vengo, sono terre che hanno saputo veramente costruire un equilibrio economico incredibile sulla base dell’azienda a conduzione familiare. Per cui trovo che la storia dei Lehman sia quanto mai al posto giusto in questo premio perché è davvero la storia di una conduzione familiare tanto che, quando muore Bobbie, l’ultimo dei Lehman, la mia storia va verso il finale. Terminata la vita di colui che aveva dato per ultimo il cognome alla banca senza avere eredi è chiaro che a questo punto la banca si perde. E questa credo che sia una cosa tutto sommato bella perché è la dimostrazione, in qualche modo, che le famiglie sono anche dei centri di produzione e questa storia secondo me lo racconta anche nei suoi aspetti conflittuali attraverso le liti fra i due fratelli, tra i padri e i figli. Le asperità ci sono, niente è soltanto sorridente e bello. Io cerco di raccontare questa storia perché trovo che non riguarda soltanto gli Stati Uniti, non riguarda soltanto la finanza americana ma riguarda tutti noi.
Il punto di vista che lei sceglie è quello un narratore onnisciente che però non giudica mai i suoi personaggi. Sono i fatti, le azioni che compiono a porli davanti al tribunale dei lettori. C’è una ragione per cui ha scelto questo punto di vista?
Provenire dal mondo del teatro mi ha molto aiutato perché in teatro la retorica è pericolosissima e c’è una ragione fondamentale per cui questo avviene secondo me: in teatro tu sei nel palcoscenico in carne ed ossa quindi se dici qualcosa di retorico anche tu lo senti tornare addosso. A volte invece nei libri è potenzialmente più facile essere retorici per il semplice fatto che l’autore non c’è quando il lettore legge quindi è meno percepibile da parte sua il luogo comune. Io ho cercato di stare attentissimo a questo discorso ponendomi proprio in una condizione di non giudizio anche perché, detto sinceramente, tutto voglio essere fuorché un difensore dell’alta finanza che ha fatto gravi danni. Certo quando cominciai a scrivere i Lehman c’era intorno a me, e c’è tuttora a distanza di anni, anzi forse è peggiorato, un fortissimo sentimento antibancario e antieconomico. Oggi in questa Italia reduce da enormi scandali come quello del Monte dei Paschi o delle banche del Veneto c’è un forte sentimento antibancario per cui si dice che le banche sono tutte ladre. In realtà il problema è molto più complesso perché fondamentalmente stiamo parlando del cambiamento che ha avuto in questi ultimi anni il concetto di ricchezza. Oggi la ricchezza è diventata tutto, lo spartiacque, il metro di valutazione di tutto quanto, l’elemento determinante per tante cose. Pensiamo nel mondo a quanti milionari sono stati eletti presidenti. Io però non devo far percepire alcun giudizio, devo soltanto raccontare una storia. Tra l’altro alla fine l’economia nel mio libro c’è, è un elemento potente, centrale, però è anche secondaria perché questa è una storia di esseri umani, di famiglie, di corteggiamenti, di liti, è una grande saga familiare. L’economia c’è ma è come se andasse sullo sfondo, come se tu la vedessi in filigrana attraverso un filtro che è quello della saga familiare.
In verità, accecati da questo sentimento antibancario, spesso non teniamo conto che a muovere le banche è il desiderio di arricchimento facile della gente. Nessuno in fondo è innocente e questo nel libro appare chiaro…  
Questa tra l’altro è una cosa che c’è anche nella nostra letteratura, di tanto in tanto compare in modo molto chiaro ad esempio pensiamo a Pinocchio quando mette da parte i soldi e li dà al Gatto e la Volpe perché gli dicono: dammi i soldi, te li sotterriamo nel Campo dei miracoli e domani mattina troverai il doppio senza sudare, senza faticare, senza lavorare. La voglia di arricchirsi senza lavorare è uno dei grandi miti che ci portiamo dietro e che nasconde anche delle grosse fregature. Evidentemente sotto questo punto di vista dobbiamo essere onesti nel dirci che purtroppo siamo tutti noi che vorremmo arricchirci senza faticare.
Il libro, nonostante il tema, è ricco di momenti esilaranti e spassosissimi. L’’uso a piene mani che lei fa dell’ironia e che è senz’altro la cifra dominate del romanzo sembra quasi un modo per ridimensionare la religione dei soldi dei Lehman, per creare una sorta di straniamento nel lettore rispetto alle vicende narrate… Era questo il suo intento?
La risata è un elemento fondamentale per me ed è fondamentale anche che venga scritto perché io a volte ho come la sensazione che le persone vedendo il mio libro, vedendo la mole, sentendo che tratta di economia è come se si impaurissero. Invece io credo che sia un libro che fa anche ridere, poi c’è un elemento di ironia ebraica molto forte, molto dichiarato. Questa è una storia che nasce ebraica, l’elemento yiddish è molto forte, non a caso i Lehman sono ebrei che vengono dalla Germania. Quindi quando racconti una storia che viene da quelle origini lì è inevitabile la forte presenza dell’ironia yiddish e quindi la presa in giro di sé stessi e degli altri. Il riso è determinante, imprescindibile nella cultura ebraica. Probabilmente sentendo che questa era una vicenda per molti aspetti vissuta dalla società che avrebbe accolto il mio libro come argomento ostico ho sentito più che mai il bisogno di alleggerirlo e di dare al pubblico un premio. Per cui tu stai leggendo una storia che sicuramente ti può impressionare perché è lunga e articolata, ma io cerco di raccontarla in un modo che ti appassioni, infatti nel libro succedono una miriade di fatti, il mio non è un libro teorico, non è un saggio, è fatto di accadimenti, racconta un’avventura che poi è quella della contemporaneità.
Può spiegarci meglio in che modo è stato influenzato dall’ironia ebraica?
In tante altre culture, ad esempio in quella cattolica, ci sono dei blocchi, delle cose delle quali non si può ridere. Anche nella nostra cultura politica è così. Se tu vai a vedere i politici del dopoguerra democristiani, comunisti e di destra, ti accorgi che il riso è completamente bandito dal viso dei nostri politici perché nella tradizione anche di sinistra ridere era considerato disdicevole. Per cui si devono aspettare decenni perché sul viso dei nostri politici cominci a baluginare un sorriso. Ecco, nella cultura ebraica, viceversa, tutto può essere oggetto di riso e di ironia e questo è un elemento fortissimo e preponderante nella cultura ebraica e nella letteratura ebraica come ad esempio in Kafka, un autore che ha avuto questa ironia anche tragica per raccontare le cose. Tutto “La metamorfosi” di Kafka è basato su un assunto profondamente ironico.
l libro è intriso di cultura ebraica e Yiddish tanto che sembra scritto da un ebreo. Lei però non è ebreo. Come ha fatto a raggiungere una conoscenza così approfondita e duttile di questa cultura?
Questo nasce dalla mia biografia. Quando ero molto piccolo mio padre strinse un’amicizia fortissima con uno degli anziani della comunità ebraica di Firenze dove vivo. La moglie di quest’uomo era la maestra nella scuola elementare ebraica di Firenze ed io quindi ho avuto la possibilità per un po’ di tempo di avere un doppio insegnamento, cioè sia la scuola normale italiana, sia la scuola ebraica. E questo per me è stato fondamentale perché mi ha aperto gli occhi su una cultura completamente diversa rispetto alla mia e su un mondo che altrimenti non avrei mai conosciuto. In qualche modo sono cresciuto con un piede su due staffe, in quanto mi ritengo sia occidentale, sia privo di origini, o perlomeno aperto al mondo, come tutto l’ebraismo che grazie alla diaspora è aperto a tutte le grandi forme di contaminazione dei popoli con cui il popolo ebraico è entrato in rapporto. Quindi è un mondo aperto alle più disparate provenienze e per me questo è stato fondamentale per togliermi una tendenza a parlare di cose solo italiane. Nei miei testi fino ad ora non ho mai parlato di cose italiane. E ci sarà una ragione. In qualche modo credo che oggi tutti, nell’era di internet, siamo cittadini del mondo, è cambiato profondamente il mondo rispetto a quindici anni fa nel senso che oggi con un battito di ciglia posso chattare con qualcuno che è in Australia. Questa facilità non è priva di conseguenze nel nostro modo anche di raccontare le storie. Pensi che i Lehman verrà messo in scena da uno dei più grandi registi di Hollywood che è Sam Mendes. Questa è una cosa incredibilmente bella per chiunque oggi provi a scrivere. Questa storia di un gruppo di ebrei tedeschi diventati americani viene raccontata da un italiano e viene messa in scena da un inglese. È la dimostrazione che di fatto oggi non esistono più patenti di pertinenza geografica, tutti quanti possiamo raccontare delle storie che semplicemente ci riguardano, perché riguardano il mondo intero.
Il protagonista principale del libro è senz’altro il denaro. Tutto viene sacrificato in su nome. Eppure nel passare da una generazione all’altra si nota una costante perdita di valori morali e religiosi, uno scadimento umano sempre più evidente. Questo nel libro vien ben messo in evidenza. Come mai ha voluto sottolineare questo fatto?
È assolutamente così per cui questa è anche la storia di un progressivo allontanamento dalle proprie radici. Sia il papa Ratzinger sia papa Bergoglio hanno parlato più di una volta dei rischi enormi del relativismo oggi. Ecco questo libro parla anche del fatto che oggi tutto è relativizzato rispetto al passato, e quindi i riti che i primi Lehman si portano dietro dall’Europa vengono progressivamente considerati sempre meno importanti fino a scadere in una dimenticanza generale. Rimangono soltanto come dei ricordi sullo sfondo. In realtà però è complicato. Per esempio Bobbie, che è l’ultimo dei nostri Lehamn, si allontana da questi riti perché ormai, quando qualcuno dei Lehman muore, non è più vantaggioso sospendere tutta la produzione della banca per un certo numero di giorni come in passato, per cui viene detto che si fa un minuto di silenzio, che si mette la bandiera a mezz’asta. Però la memoria di queste lontane origini rimane perché Bobbie alla fine è ossessionato durante la notte da incubi e sogni, che sono un altro elemento portante di questo libro, nei quali spesso sogna i profeti della tradizione ebraica che da piccolo studiava, però li sogna in un modo deformato e narrativamente lontano dal quella che è la Bibbia. Sicuramente il tema delle radici è molto presente.
Questo scadimento si può legare ad una degenerazione della società nella quale vivono i Lehman?
Sì secondo me è legato all’aumento del senso denaro. Loro finiscono per sostituire la religione delle origini con un’altra religione, quella del capitalismo. Perdono i riti ebraici dell’inizio e li sostituiscono con i riti del capitalismo più sfrenato e più micidiale.
Questo si vede bene nel ruolo che assume il tempio: esso finisce per diventare non un luogo di culto, ma un luogo di potere…
Esatto. Questa è la prova più inoppugnabile di quanto è stato appena detto. Cioè il tempio viene vissuto come un luogo in cui la posizione della famiglia all’interno dello schieramento dei membri del culto viene vissuto come un simbolo di quanto la famiglia è potente.
Nonostante l’ironia la visione che emerge nel libro dell’uomo e della società è cupissima. Sembra che non vi sia alcuna via di salvezza e che tutti siano inchiodati al loro destino. Nel romanzo alcuni Lehman, ad un certo punto, rinunciano a tutto e scappano, ma non sembra esservi salvezza nella loro fuga.
Io non sono in grado di dire che cosa ci sarà dopo la pagina che stiamo vivendo. Ricordiamoci che il fallimento dei Lehman è stato tra le cause che hanno portato all’esplosione di quella grande crisi nella quale siamo tuttora. Per cui noi viviamo ancora oggi le conseguenze di quello che è raccontato nel libro. La smaterializzazione dell’economia di cui parlavo prima poi ha avuto come conseguenza ciò in cui ci dibattiamo adesso. Che cosa ci sarà dopo non lo so. Sono arrivato a raccontare in questo libro un passaggio fondamentale che è la ragione per cui ad un certo punto un capitalismo troppo basato sull’apoteosi del denaro, e parlo del denaro fine a sé stesso, ha cominciato a mostrare il fianco ed è poi clamorosamente venuto giù. Io non so dire dopo questa dimostrazione di plateale debolezza, se vogliamo di insostenibilità di questo tipo di sistema, che cosa potrà esserci, perché io faccio lo scrittore, non l’economista o il politico. Nel libro ho raccontato lo scenario che stiamo vivendo adesso e cerco di andare alla ricerca delle cause che hanno portato al fallimento di un colosso come i Lehman ma lo faccio da narratore, non come un saggista, un economista o un politico. Io racconto una storia. Come l’umanità potrà ad un certo punto risollevarsi da una pagina come quella del crollo del capitalismo di cui Lehman sono stati il simbolo più evidente non lo so dire e non ne ho idea. Probabilmente non ne hanno idea neppure gli economisti perché stiamo un po’ procedendo lungo la costa, quando si naviga con una nave lungo la costa è perché non si tende a prendere il largo per paura che la barca non resista alla tempesta. Ecco, ancora stiamo procedendo lungo costa e quindi tutto ciò che la letteratura può fare è interrogarsi sulle cause di questo. Io l’ho fatto in modo radicale perché per andare ad interrogarmi sulle cause sono andato a scomodare Adamo ed Eva, nel senso che ho costruito una storia che parte prima della metà dell’Ottocento.
La crisi del 2008 però viene affrontata in poche pagine…
Questo l’ho fatto per una serie di ragioni. La più importante è che i protagonisti del libro erano ormai usciti di scena perché quando la banca va a morire non c’erano più i Lehman. Bobbie, l’ultimo Lehman, muore nel 1969 senza eredi. Dal 1969 in poi non c’è stato più un Lehman nell’amministrazione della banca, finiscono in mani ad altri e comincia il definitivo crollo della banca. Però era già tutto scritto, nel senso che a quel punto era chiaro che tutto ciò che si era manifestato prima esplode però non c’era il bisogno di raccontarlo perché già era evidente il modo in cui era stato costruito. Io racconto quella partita tremenda a squash, a ping pong, del greco e dell’ungherese per il possesso della banca che non sono più evidentemente Lehman e che rappresentano l’avvento di questa nuova generazione scriteriata di persone che non avendo nel DNA la storia di quella banca non potevano portarla avanti con la consapevolezza che i Lehman avevano dimostrato e che avevano portato con sé.
I personaggi del libro sognano molto e i sogni hanno spesso un valore rivelatorio. Come mai ha dato questa importanza al mondo onirico?
Questo sarà molto più chiaro quando uscirà tra pochi mesi il mio nuovo libro “L’interpretatore dei sogni” che mi ha occupato molti anni parallelamente ai Lehman nel quale ho riscritto “L’interpretazione dei sogni” di Sigmund Freud dal punto di vista romanzesco perché trovo che lì dentro ci sia tutta la storia delle paure, delle fobie, degli incubi dell’uomo moderno. Dovendo scrivere anche la storia dei Lehman non ho potuto non domandarmi che cosa potessero sognare questi personaggi. Per me come autore è sempre fondamentale farmi questa domanda: che cosa c’è di nascosto? In realtà i sogni sono la nostra parte nascosta, tutto ciò che non osi dirti, sono le domande che non osi porti, quindi per me è fondamentale chiedermi che cosa i personaggi non vogliono dirsi e quindi di conseguenza che cosa sognano di notte. Ciò che non vuoi dirti, inevitabilmente viene a visitarti quando chiudi gli occhi.  
È vero che il libro nasce prima oralmente dettandolo ad un registratore?
È verissimo ma non solo questo libro ma tutte le cose che ho scritto. Il libro è scritto in movimento, è scritto per strada, andando in bicicletta, registrato e poi sbobinato. Ciò rende la parola in movimento anch’essa, essendo figlia di un movimento fisico. Questo per me è un elemento imprescindibile ed è dimostrato anche da come il libro è scritto e impaginato: io trovo sempre che il ritmo sia essenziale. Questo non è un libro scritto in versi, infatti non c’è alcuno stralcio di metrica. È scritto in quel modo soltanto perché io pongo un’attenzione micidiale alla parola come elemento di ritmo e quindi ho scritto questo testo proprio come una specie di grande ballata ritmica dove le parole sono ognuna degna di importanza e di interesse.
Il romanzo per molti aspetti, dallo stile formulare alle ripetizioni all’uso dei versi, sembra un poema epico aggiornato alla contemporaneità. Si ritrova in questa definizione? In che modo è stato influenzato dall’epica classica?
Penso anch’io sia vicino all’epica. Molto spesso gioco in modo ironico con l’epica. Gli eroi ci sono, anche se è antieroico il modo in cui sono raccontati. C’è un modo di prendere in giro l’epica eroica.
Per quando riguarda il termine romanzo, dipende da che cosa si intende: oggi le divisioni tra i generi sono sorpassate, sono saltate tutte. Pensiamo al cinema. Nel cinema siamo addirittura arrivati al punto in cui un documentario è entrato a pieno titolo tra il cinema non documentario tanto che pochi anni fa, alla mostra del cinema di Venezia, il miglior film premiato è stato un documentario, “Sacro Gra”.  Oppure quando uscì il libro “Gomorra”, ci fu un grande dibattito per stabilire che cosa fosse. È un saggio o è un racconto? È un romanzo o un libro di giornalismo? Io trovo che la forza straordinaria di quel libro e il tentativo del mio sia proprio di non stare in nessun genere. Addirittura nel mio libro è presente il fumetto. Ho ho voluto andare oltre ogni forma di genere, perché i generi oggi sono completamente saltati. Basti pensare che le nuove generazioni ascoltano la musica rap che in molti casi è scritta in metrica e in rima. Che cosa vuol dire? Quella è poesia? No, non è poesia, è semplicemente comunicazione. Oggi in una società in cui tutti scrivono, grazie anche ai social, post, tweet è cambiato completamente e inevitabilmente il modo di scrivere.
La storia dei Lehman è nata inizialmente come testo teatrale (“La trilogia dei Lehman”) o è nato prima il romanzo?  Oltre alla struttura, quali sono le principali differenze tra le due redazioni?
“Lehman trilogy”, il testo teatrale, è la versione tratta da questo libro. Non è venuto prima il testo teatrale e poi il libro. Il libro è quello che io scrissi, poi siccome uno spettacolo teatrale non poteva durare dodici ore ho dovuto ridurlo in una dimensione più controllabile. Il libro viene prima anche se è uscito dopo. Nella versione teatrale mancano molti personaggi, perché chiaramente un’opera teatrale deve fare i conti con il pubblico, non puoi tenerlo dodici ore in teatro. Nella parte teatrale, per ovvie ragioni, ho dovuto rinunciare ad alcune cose. È solo questa la differenza. Il testo teatrale è meno della metà del romanzo. Dal punto di vista quantitativo è completamente un’altra cosa.


Stefano Massini scrittore, drammaturgo, sceneggiatore, è consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano/Teatro d’Europa. È volto noto televisivo per i suoi racconti nella trasmissione Piazzapulita su La7. Collabora con «la Repubblica». È lo scrittore italiano più rappresentato sui palcoscenici internazionali; ha vinto sette premi della critica tra Francia, Italia, Germania e Spagna; i suoi testi sono stati tradotti in 15 lingue. Il suo “Lehman Trilogy”, ultima regia teatrale di Luca Ronconi, è stato messo in scena da Sam Mendes per il National Theatre di Londra. Tra i suoi ultimi libri “Qualcosa sui Lehman” (2016), “L’interpretatore dei sogni” (2017), “Dizionario inesistente” (2018) pubblicati da Mondadori; per il Mulino «Lavoro» (2016) e “55 giorni. L'Italia senza Moro. Volti, immagini, storie da un paese in bilico” (2018).

15 luglio 2019

Milo De Angelis "Tutte le poesie 1969-2015" - "La parola data".


Questa recensione riguardante due libri di Milo De Angelis, che considero uno dei maggiori poeti contemporanei, non solo italiani, è uscita sul Giornale di Vicenza il 31 dicembre 2017.

di Fabio Giaretta

“Somiglianze”, il primo libro di Milo De Angelis, esce nel 1976. Il poeta milanese ha solo 25 anni ma quella raccolta colpisce subito per la sua intensità e originalità, tanto da diventare un modello per le generazioni successive. Sono passati circa quarant’anni da quel folgorante esordio e nel frattempo De Angelis ha pubblicato altre sette raccolte, l’ultima “Incontri e agguati” nel 2015, che lo hanno reso uno dei protagonisti indiscussi della poesia contemporanea. Ne sono testimonianza due libri che attraversano, in modo diverso, il suo percorso poetico: il primo, intitolato “Tutte le poesie 1969-2015” (Mondadori, pagg. 442), comprende tutte le raccolte finora pubblicate, più una sezione di inediti giovanili e un’autoriflessione sulla poesia; il secondo, “La parola data. Interviste 2008-2016” (Mimesis, pagg. 176), raccoglie 17 interviste ed un dvd con un video dal titolo “Sulla punta di una matita”, che permettono di capire meglio il suo pensiero e la sua produzione poetica.

Dalle interviste emerge l’immagine di un uomo il cui rapporto con la poesia è sempre stato assoluto e totalizzante. Per lui la poesia è una via privilegiata ed esclusiva per pensare il mondo. Non a caso De Angelis afferma di non riuscire a concepire nulla che preceda la parola. “L’immediato stesso è una parola”.
Leggendo le varie raccolte, risulta evidente il ricorrere ossessivo di pochi temi come la giovinezza, la morte, l’angoscia, l’amore, il gesto atletico, il dialogo con le ombre, la città, che in genere coincide con la periferia milanese, senza che questo faccia mai pensare ad una poesia ripetitiva e monotona. De Angelis stesso si definisce un poeta di lago, concentrico, che ritorna costantemente sugli stessi nuclei tematici.
Quanto allo stile, si nota un’intima coerenza che attraversa tutta la sua opera, anche se negli ultimi libri si fa strada una maggiore apertura. Innanzitutto, leggere le poesie di De Angelis significa fare i conti con una parola che proviene da luoghi sepolti e profondissimi e che per giungere alla luce ha dovuto compiere un lungo cammino nel sangue, pieno di ostacoli e sbarramenti; questo percorso così accidentato imprime una potenza e una densità straordinarie ai suoi versi. La sua è sempre stata una scrittura intimamente tragica, trafitta, lacerata, ellittica, che procede per strappi, per fotogrammi, per frammenti legati tra loro da vertiginosi salti logici che non sono però mai arbitrari. Nello stesso tempo colpisce il bisogno di esattezza e di precisione che dà ai suoi versi un rigore allucinato ed insonne. Come scrive Stefano Verdino nella postfazione alla raccolta di tutte le poesie, il grande fascino dei suoi testi sta nella “sfasatura tra la nitidezza del dettaglio e l’apertura visionaria”.
Per molto tempo l’opera di De Angelis è stata collocata in modo sbrigativo ed errato in una linea orfica o neo-orfica, soprattutto a causa dell’oscurità di molti suoi versi. In realtà la sua poesia rifiuta qualsiasi esoterismo e rimane sempre ancorata ad un irrinunciabile qui, ad un vissuto sanguinante e concreto. Questo non significa che essa non abbia un altissimo valore conoscitivo. Come dice lo stesso De Angelis, infatti, essa rappresenta una forma di conoscenza legata allo svelamento, che consente al nostro sapere di andare oltre sé stesso, “in quanto rivela qualcosa che già c’era prima di noi ma che noi possiamo vedere solo attraverso una parola nuova, solo attraverso l’invenzione della parola”.

Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano, dove insegna in un carcere di massima sicurezza. Ha pubblicato Somiglianze (1976); Millimetri (1983); Terra del viso (1985); Distante un padre (1989); Biografia sommaria (1999); Tema dell’addio (2005); Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010); Incontri e agguati (2015). Ha scritto il racconto La corsa dei mantelli (1979, 2011) e un volume di saggi (Poesia e destino, 1982). Ha tradotto dal francese e dalle lingue classiche