Una versione molto
ridotta di questa intervista è uscita su “Il Giornale di Vicenza” del 31 agosto
2019. Ho avuto la fortuna di intervistare Andrea Tarabbia in occasione del tour
per il Premio Campiello. Premio che è stato vinto dal suo notevole e
sorprendente “Madrigale senza suono”.
Di Fabio Giaretta
“Il demone a Beslan”,
“Il giardino delle mosche” e “Madrigale senza suono” mostrano come Andrea
Tarabbia parta sempre dalla realtà, da qualcosa di davvero accaduto,
aggiungendovi “il fittizio per poterla raccontare”. Attraverso la letteratura
lo scrittore vuole riempire “le parti cave e oscure del reale”. Ciò che gli
interessa però non è la realtà storica in senso stretto, ma quella umana.
“Il demone a Beslan”
(Mondadori, 2011) si basa su un tremendo fatto di cronaca, avvenuto in Ossezia
nel 2004, quando un gruppo di separatisti ceceni occupò una scuola per tre giorni. L’occupazione si risolse nella strage di 334 persone,
tra cui molti bambini, a seguito dell’irruzione della polizia. Tarabbia sceglie
di far raccontare questa storia a Marat Bazarev, unico membro del commando
ceceno sopravvissuto, che scrive una sorta di confessione mentre si trova in un
carcere di massima sicurezza a Mosca. Si tratta di un personaggio inventato, ma
verosimile, perché effettivamente uno degli attentatori, Nurpaša
Kulaev, sopravvisse e fu
condannato all’ergastolo. Ma questa voce, durante la narrazione, è perturbata
da altre voci, quella di Petja, un bambino morto nella scuola, e quella di
Ivan, un vecchio deforme che vede dall’esterno dell’edificio quello che sta
succedendo. Entrambi altro non sono che fantasmi della mente di Marat.
Nel successivo “Il
giardino delle mosche” (Ponte alle Grazie, 2015), finalista al Premio
Campiello, Tarabbia fa ancora i conti con una storia vera e con due temi
presenti in tutte le sue opere, il male e la morte. Qui si misura ancora con una
vicenda che ha a che fare con la Russia, ovvero quella di Andrej Čikatilo, il mostro di Rostov,
che uccise almeno 56 persone infliggendo loro indicibili mutilazioni. E decide
di dargli la voce e di fargli raccontare la sua terribile storia così come
aveva fatto Marat ne “Il demone a Beslan”. A questa voce monologante se ne
aggiungono però altre come quella fantasmatica del fratello Stepan Romanovič, morto in circostanze
tragiche e oscure quand’era ancora piccolo, o quella dell’ispettore, il dottor
Kostoev, che raccoglie la testimonianza di Čikatilo. Ancora una volta, insomma, un flusso
di voci e di punti di vista.
Arriviamo così a
“Madrigale senza suono” (Bollati Boringhieri, 2019), vincitore dell'ultima edizione del Premio
Campiello, in cui la dimensione polifonica de “Il demone a Beslan” e “Il
giardino delle mosche” viene portata alle estreme conseguenze. Il protagonista
principale è il geniale e innovativo compositore di madrigali Carlo Gesualdo,
nato a Venosa nel 1566 e morto a Gesualdo nel 1613. Se oggi la sua figura è
ampiamente conosciuta lo dobbiamo alla riscoperta novecentesca da parte di un
altro grande compositore, Igor Stravinskij, che gli dedicò il “Monumentum pro
Gesualdo di Venosa ad CD annum, tre madrigali ricomposti per strumenti”.
Partendo da questi elementi, Andrea Tarabbia immagina che Stravinskij abbia
ritrovato un misterioso resoconto sulla vita di Gesualdo scritto da un suo
fedele servitore, il nano deforme Gioachino Ardytti. Così alla voce di
Gioachino, che narra una biografia intima e privata del principe, si aggiungono
quella di Stravinskij, che via via commenta quello che sta leggendo, quella di
Glenn Watkins, grandissimo studioso americano di Gesualdo che nel finale del
libro dà la sua interpretazione del manoscritto ritrovato, quella di Gesualdo
stesso e di un coro di personaggi secondari che attraversano la narrazione.
Ed è su questo
notevole romanzo, dai toni cupi e gotici, al quale però non mancano momenti comici
e buffi, e che gioca in modo molto intelligente e raffinato con la storia e la tradizione letteraria, che si concentra la seguente intervista ad Andrea Tarabbia. Come
ci ha raccontato in una delle risposte più articolate, accanto ai tre libri che
abbiamo citato, vanno posti anche due importanti saggi come “La buona morte”
(Manni, 2014) e “Il peso del legno” (NNeditore, 2018). Il primo è un reportage sull’eutanasia in Italia intervallato da squarci
biografici che si soffermano sulla malattia del nonno, esperienza per lui
determinante sia come uomo, sia come scrittore. Ne “Il peso del legno” invece
Tarabbia si interroga, cercandone il senso profondo, sul racconto della
crocifissione di Cristo contenuto nei quattro Vangeli e sui personaggi che lo
attraversano. Un libro questo fondamentale per capire “Madrigale senza suono”
con il quale condivide un’ampia parte di bibliografia nonché molti temi come il
rapporto padri-figli, la colpa, il dolore, la morte.
Che effetto le ha fatto vincere il Premio Campiello dopo averlo sfiorato nel 2016 cono "Il giardino delle mosche?
Guardi, sono ancora abbastanza frastornato. Per tutta la giornata della finale ho avuto delle sensazioni molto positive, ma quando è stato pronunciato il mio nome sul palco della Fenice non ci volevo credere. Sono molto contento, ma non sono bravo a fare discorsi intorno all'"effetto che fa": mi vengono solo cose banali da dire.
Come nasce il suo
interesse per Gesualdo da Venosa e la decisione di metterlo al centro di un suo
romanzo?
Nasce per caso: prima
di vedere un brutto documentario di Werner Herzog a lui dedicato, non lo
conoscevo. In seguito, ho iniziato a studiarlo e ad ascoltarlo perché la storia
di questo genio musicale che era stato in grado di commettere un omicidio
brutale mi ha molto affascinato: sentivo il tema di fondo – se dall’orrore può
nascere la bellezza – molto mio.
Come ha lavorato
per ricostruire la figura di Gesualdo? E quella di Stravinskij?
L’arrivo di
Stravinskij è stato fondamentale per il romanzo, perché mi ha permesso di non
fare un semplice romanzo storico – in cui si ricostruire la vita e l’opera del
principe – ma un libro che mette in relazione due secoli, due geni e due modi
di vedere la musica e il mondo. Gesualdo e Stravinskij sono, per certi versi,
l’uno l’opposto dell’altro (uno è istintivo, l’altro è razionale; uno è un
autodidatta, l’altro è uno studioso e così via), ma in nome di un comune
concetto della musica “dialogano” a distanza, sono l’uno il padre artistico
dell’altro. Per costruire questo rapporto li ho dovuti studiare a lungo,
leggendo tutto quello che trovavo. La svolta è arrivata quando ho trovato, in
alcuni libri di Stravinskij, dei passi in cui parla di Gesualdo e dell’ammirazione
che prova per lui. Quei passi sono la base di molto di quello che ho scritto.
Nella vicenda di
Gesualdo è difficile capire dove finisca la storia ed inizino le molte leggende
che avvolgono la sua figura. Come si è documentato? Come ha cercato di
districarsi tra verità storica e leggenda?
È l’aspetto più
complesso e insieme più affascinante della figura di Gesualdo: ormai è
difficilissimo stabilire che cosa sia davvero accaduto in certi momenti della
vita del principe. Tutto è ammantato di leggenda, da secoli si inventano fiabe
nere sulla sua condotta, tanto che perfino certi studiosi hanno fatto
confusione prendendo per veri certi avvenimenti che sono frutto di leggende
popolari. Questo, da un certo punto di vista, per un narratore è una manna dal
cielo, perché significa che la storia di cui si sta occupando è viva, ed è
stimolante giocare narrativamente su ciò che è vero e ciò che non lo è (il
rapporto falso/vero è uno dei temi fondamentali del romanzo): ma proprio per
poter mettere in piedi questo gioco è necessario avere perfettamente chiaro che
cosa sia storia e che cosa sia leggenda. Sono stato aiutato parecchio da una
persona, Giuseppe Mastrominico: Giuseppe, gesualdino e gesualdiano, è
probabilmente la persona al mondo che conosce meglio il principe, ha condotto
studi storici e filologici su di lui, abita a 50 metri dal castello dove
Gesualdo visse i suoi ultimi anni e morì. È stato la mia guida fondamentale,
insieme a musicologi e musicisti con cui mi sono confrontato.
Il fatto più noto
della vita di Gesualdo è l’assassinio della moglie fedifraga Maria d’Avalos.
Lei nel libro suggerisce l’idea che Gesualdo sia quasi stato costretto ad
ucciderla per seguire le leggi e le usanze del tempo, discostandosi dall’idea
che fosse un demonio. E in ogni caso dice che se fu un Lucifero, fu un Lucifero
portatore di bellezza…
La frase su Lucifero è
di Stravinskij, io l’ho soltanto ripresa e riusata. Per quanto riguarda
l’omicidio, la questione è ancora aperta: Gesualdo voleva uccidere Maria?
Secondo certi miti sì, poiché era un demonio. Ancora: Gesualdo amava Maria? Forse
no, dopotutto era sua cugina e il matrimonio era combinato. Ma non c’è nulla
che confermi queste illazioni. La sola cosa certa è che egli fu “costretto” a
uccidere per salvare il casato e perché le convenzioni del tempo glielo
imposero. Ma se uccise con soddisfazione o con disperazione è una questione che
nessuno risolverà mai. Per parte mia, dovendo fare un romanzo, ho deciso di
percorrere una strada che rendeva il personaggio del principe, se possibile,
ancora più tragico di quello che è.
“Il demone a Beslan”, “Il
giardino delle mosche” e “Madrigale senza suono” si possono considerare una
trilogia?
Più che di trilogia –
che è un termine improprio, visto che nei tre romanzi non sono contigui per
ambiente, personaggi e tempi, parlerei di triade. Mi perdoni se la risposta
sarà un po’ lunga, ma mi dà l’occasione per fare un po’ il punto: quando,
più di dieci anni fa, cominciai a immaginare quello che sarebbe diventato Il demone a Beslan, avevo in mente di
raccontare la storia che ho finito per raccontare e, soprattutto, avevo in
mente il modo attraverso cui volevo
raccontarla. Ma, per così dire, mi fermavo lì, al libro che mi stava nascendo
dalle mani.
Tra il Demone e il
Giardino – che è la seconda tappa di
questo piccolo viaggio – ho curato la traduzione di Diavoleide di Michail Bulgakov e ho pubblicato La buona morte, un reportage sull’eutanasia.
La buona morte è stato scritto in
contemporanea con il Giardino: vale a
dire che, durante la stesura del romanzo, ho preso una pausa e ho scritto il reportage. Le bibliografie di questi due
libri, in modo solo apparentemente sorprendente, coincidono per larghi tratti.
Come è possibile?, si chiederà forse qualcuno. È possibile: dopotutto, al di là
di quel che si può dire intorno a questi due libri, si tratta di opere che
hanno a che vedere in modo piuttosto diretto con l’idea di morte. Ma non solo: La buona morte contiene una piccola
parte autobiografica e una serie di riflessioni sulla letteratura che fanno di
questo libro il laboratorio per così dire pubblico del Giardino delle mosche. Ecco, forse tutto nasce proprio durante la
pausa che, quattro o cinque anni fa, mi presi dalla scrittura del Giardino per realizzare questo reportage: scrivendo di eutanasia, mi
resi improvvisamente conto che non stavo, dopotutto, scrivendo un libro diverso
dal Giardino, e che i temi e gli
argomenti e la voce che stavo usando per La
buona morte erano fratelli dei temi, degli argomenti e della voce che avevo
usato nei romanzi. Nella Buona morte
facevo, per così dire a carte scoperte e senza troppi artifici narrativi,
quello che avevo fatto nei due romanzi: usavo tutta la letteratura di cui ero
capace per affrontare la morte, il dolore (mio e degli altri) e, se rileggo dei
passi di quel reportage, vi trovo
quasi letteralmente gli appunti che nei mesi precedenti avevo preso per la mia
storia di Čikatilo. Insomma: nella Buona
morte, per chi lo sa leggere, c’è il making
of del Giardino.
Lo stesso meccanismo si è ripetuto questa volta: quando, nel
2014, cominciai a raccogliere i materiali e a immaginare Madrigale senza suono – ed ero ormai consapevole che almeno tre
delle mie opere (le più importanti) erano parenti stretti e, in qualche modo,
sapevo che il romanzo che avrei scritto doveva ampliare questa famiglia – non
avevo in mente di concepire e scrivere Il
peso del legno. Invece, di nuovo, la stesura di Madrigale, a un certo punto, si è interrotta, e dalla penna è
uscito un saggio narrativo, fortemente autobiografico e colmo di riflessioni
sulla letteratura e sullo scrivere. Nel Peso
del legno, come mi era già accaduto, c’è il laboratorio del libro che
verrà: sotto il cappello di una ricerca che è letteraria, biografica e di
senso, io racconto come è nato Madrigale,
e lo racconto mentre lo sto ancora
scrivendo.
Va da sé, poi, che i tre romanzi che, come dicevo,
compongono una triade ma non una trilogia, dialoghino incessantemente tra loro:
è evidente che hanno temi affini e voci affini; soprattutto, è evidente che
sono costruiti su voci narranti che, ciascuna a suo modo, vengono “disturbate”,
su punti di vista incerti e fallibili, su riscritture e rimuginamenti. Insomma,
i tre romanzi sono fratelli, ma ci sono almeno due cugini che fanno il
controcanto, e lo fanno mettendo in scena l’autore, che per forza di cose nei
romanzi rimane nascosto.
A chi mi ha chiesto e mi chiede perché il Giardino o Madrigale siano scritti nel modo in cui sono scritti posso dire che
nessuno dei miei libri è un’opera sola, isolata, ma è qualcosa che dialoga con
il libro che l’ha preceduta e con quello che si è messo a nascere mentre l’opera di cui parlo veniva scritta.
Nella mia visione, benché sia perfettamente consapevole che tutti i miei libri
sono opere che si possono leggere in modo indipendente, leggere solo il Giardino o solo il Demone significa vedere soltanto una parte del problema, non la sua
totalità. I libri sono tanti, l’opera è una.
Come mai nei suoi
libri sente sempre il bisogno di partire dalla storia?
A questa
domanda c’è una risposta stupida e una più intelligente. Quella stupida è che
le biografie dei personaggi storici mi consentono di non dover inventare una
trama. In verità, detta più seriamente, come lettore mi accorgo che una storia
non completamente inventata ma che ha una base storica mi piace di più. “Moby
Dick” ad esempio, è certamente un romanzo di fantasia però è stato scritto dopo
tre anni di navigazione in giro per il globo da parte di Melville. Quindi
conosce le cose che racconta. Per me è fondamentale che ci sia un gancio con la
realtà. A me sembra che nella storia e nella vita reale abbiamo un sacco di
esempi di vite che sono in qualche modo paradigmatiche. Trovo giusto da parte
di chi scrive portare alla luce queste storie, come se fosse una specie di
compito. Parte del mio lavoro consiste nel pescare dal magma delle storie del
passato qualcuno che ha fatto delle cose che sono dei paradigmi di come siamo
fatti noi, e dargli un vestito letterario. Probabilmente questo mi viene da
Dostoevskij, che prendeva spunto per le sue storie da fatti di cronaca, li rielaborava, li rimasticava, li stravolgeva perfino: ma si può trovare un articolo di un giornale dell'epoca con dentro la notizia di qualcuno che, per esempio, ha uscciso una vecchia con una scure.
Cosa l’ha portata a
scegliere come narratore principale Gioachino, il nano deforme che scrive la
cronaca sulla vita di Carlo Gesualdo, ritrovata da Stravinskij?
L’idea di dover avere
un narratore interno alla storia ma che fosse a suo modo onnisciente e potesse
andare ovunque, perfino nella testa del protagonista: avevo bisogno di una
sorta di demonietto inafferrabile che facesse da controcanto al principe. E poi,
per continuare il discorso cominciato nella risposta precedente: nel Demone ho un narratore in prima persona che
racconta di sé ma viene contraddetto da altre due voci; nel Giardino ho una voce monologante che
viene per così dire “ribaltata” nella parte finale del romanzo; qui dovevo
trovare un terzo modo di raccontare, ed è nato questo narratore storto che
osserva e racconta in terza la vita del protagonista.
Il romanzo in fondo
avrebbe potuto limitarsi alla cronaca di Gioachino sulla vita di Gesualdo. Lei
però ha inserito anche Stravinskij come altra voce narrante del libro. Per
quale ragione?
In parte credo di aver
già risposto a questa domanda poco sopra. Non mi interessa fare romanzi
storici: mi interessa fare romanzi in cui dialogano mondi e in cui una voce
metta in discussione l’altra.
Stravinskij, pur
essendo respinto da alcuni aspetti della vita di Gesualdo, lo sente come un
padre. Il suo in effetti può essere definito come un romanzo che, in un certo
senso, parla di padri e di figli…
Senza dubbio. Qualcuno
ha notato una cosa che per me era molto importante si notasse: per una volta,
nella storia di Gesualdo pesano di più le morti dei figli che quella della
moglie. All’inizio del romanzo arriva la notizia della scomparsa del
primogenito Emanuele – colui che dovrebbe, per successione, prendere in mano il
regno e continuare il cognome: capito che non avrà eredi maschi, Gesualdo si
chiude nel suo studio e si lascia morire d’inedia. Ci mette una ventina di
giorni, durante i quali Gioachino scrive la sua cronaca. Ma c’è un altro figlio
che muore e che cambia le sorti del principe: il piccolo Alfonsino, in seguito
alla cui morte Gesualdo comporrà gli unici Canti sacri e Responsori della sua
produzione. Insomma: la scomparsa di un figlio porta la morte, la scomparsa
dell’altro cambia la musica. A me questi due aspetti parevano fondamentali.
Poi c’è l’altra
questione legata alla paternità: il rapporto Gesualdo – Stravinskij.
Stravinskij sente il principe come un “padre”, ma è combattuto. Si chiede
continuamente: può un assassino, per quanto di genio, essere un padre, essere mio padre?
Stravinskij dice
che la somiglianza tra lui e Gesualdo sta nel cercare qualcosa di mai udito
attingendo a piene mani da ciò che è già stato udito. Non esiste una creazione
totalmente nuova che non poggi su qualcosa. Questa frase, valida per qualsiasi
creazione artistica e ben lontana dall’idea del genio artistico di stampo
romantico che crea dal nulla, rispecchia la sua visione?
Sì, è una cosa che
pensavo fosse ovvia da dire, invece sto notando che molte persone hanno ancora un’idea
romantica (vale a dire vecchia di due secoli) della creazione artistica. C’è
ancora il mito dell’artista creatore, tutto preso da un certo furore mistico e
che crea in una stanza buia, sudando e spasimando e provando emozioni che solo
lui sa provare. Tutto questo è, probabilmente e mestamente, figlio della
dittatura delle emozioni che impera oggi. Ma nessuno, e dico nessuno, ha mai
creato in quel modo: non si crea sulle nuvole, ma in una bottega – tant’è vero
che anche gli autori romantici scrivevano e riscrivevano le loro opere.
Verrebbe da chiedersi: ma come? Eri tutto preso dall’afflato divino,
dall’Ispirazione, e hai fatto tre versioni del poema, l’hai riempito di
correzioni, l’hai fatto leggere agli amici prima di pubblicarlo? Si crea sulla
base di un’idea, di una intuizione: ma poi c’è il lavoro, la riflessione, la
citazione, il rapporto con la tradizione (padri e figli e di nuovo, a ben
vedere). Niente nasce dal niente. Chi ha un’idea romantica del genio vive in
realtà fuori dal tempo: è come se girasse in carrozza o non avesse l’acqua
corrente in cucina.
Varie volte nel
corso del romanzo Stravinskij dubita dell’attendibilità della voce di Gioachino
definendo la sua cronaca un apocrifo e arrivando addirittura ad ipotizzare che
Gioachino altro non sia che una proiezione e una maschera dietro la quale si
nasconde lo stesso Carlo. Questa
riflessione sull’attendibilità della voce narrante è davvero interessante…
…ed è uno dei temi
fondamentali non solo del romanzo, ma del lavoro narrativo che ho fatto fin
qui. Nessuna delle mie voci narranti è certa e pienamente attendibile, tutto è
sempre messo in dubbio e passibile di contraddizione. Non mi interessa
raccontare un evento, ma tutte le possibili versioni di quell’evento. Qui ho
giocato sul topos del “manoscritto
ritrovato” – che è così fondativo per la letteratura italiana – e il gioco è
stato appunto metterlo costantemente in discussione.
In un passaggio del
romanzo Carlo invidia Tasso per il suo dolore e per la sua pena di vivere e dopo la
morte di Alfonsino dice che questo gli permetterà di comporre come mai prima.
L’arte secondo lei è figlia del dolore e del tormento?
Non necessariamente. C’è,
credo, una matrice oscura nella voglia di raccontare e raccontarsi, ma non è una
regola. Nel caso di Gesualdo mi pareva evidente che ci fosse, ma mi pare
evidente anche un’altra cosa – la dice Stravinskij a un certo punto: esiste una
felicità anche dentro la creazione più cupa, c’è una gioia anche nell’orrore.
Questo è fondamentale. Nello Sciascia più nero e sconsolato si percepisce la
felicità, il piacere con cui ha scritto. In questa relazione, in questa
felicità che ci può essere anche nella maggiore cupezza, c’è il segreto della
grande letteratura.
Nei suoi libri, e
in quest’ultimo in modo rilevante, si nota una forte insistenza sugli aspetti
più terragni, più bassi, più corporei dell’esistenza. In particolare il corpo
umano è sempre minuziosamente indagato e descritto, anche negli aspetti più
ripugnanti. Come mai?
Perché siamo fatti di
corpo, di liquidi, di tensioni, di nervi. Li portiamo ovunque e sono il filtro
attraverso cui guardiamo il mondo e lo abitiamo. I bisogni, i dolori ma anche
le gioie del corpo sono la prima cosa, sempre: se ci stanno dando il Nobel ma
dobbiamo andare in bagno, la nostra preoccupazione fondamentale sarà trovare
una toilette, non certo quella di salutare il re di Svezia secondo il
protocollo. Descrivere i corpi è dire chi siamo e come stiamo. Tutto qui.
Il tema del male,
presente in tutti i suoi libri, è strettamente connaturato qui con quello della
bellezza. Cosa la affascina di questo tema? Sembra tra l’altro che il periodo
più fulgido e creativo di Gesualdo cominci proprio dopo l’assassinio della
prima moglie…
Non saprei spiegarlo, ma
è così da sempre. Non bisogna però cadere nell’errore che hanno fatto molti a
proposito di Gesualdo, vale a dire di pensare che l’omicidio e forse il senso
di colpa siano stati il motore per la sua musica. Non abbiamo elementi per
poterlo dire con certezza.
Il libro ha aspetti
fortemente gotici, soprattutto attraverso la vicenda di Ignazio tenuto come una
bestia nei sotterranei del castello e quella della serva amante Aurelia, che
con Polissena incarna una sorta di strega. Per quale ragione ha dato un rilievo
così ampio agli aspetti gotici?
Perché mi divertiva
l’idea delle segrete e di un figlio strappato dal ventre di Maria morente: è
una rielaborazione di una delle tante leggende su Carlo e Maria. Qualcuno
scrisse che lei era incinta dell’amante quando morì; altri dissero che il vero
motivo dell’assassinio fu che lei aveva già partorito un bambino che somigliava
a Fabrizio Carafa e che, dopo la sua morte, il bimbo fu fatto morire di stenti
da Gesualdo. Niente di questo è vero, ma come dicevo prima scrivere un romanzo
di questo tipo è tenere conto dei dati storici e di quelli leggendari e trovare
il modo di farli convivere. Ecco, la convivenza che ho trovato è quella di
Ignazio e della strana trinità che compone insieme a Gioachino e al principe
Carlo.
Ignazio, mostruosa creatura reclusa nei sotterranei del castello, è costruito a partire dalla leggenda secondo la quale Maria, al momento dell’assassinio, era incinta. Cosa voleva rappresentare con questo personaggio? Può essere visto come il simbolo dei mostri che abitano l’inconscio di Carlo Gesualdo? O per lei aveva qualche altro valore simbolico?
È la colpa, ma anche la malattia (meglio: l’ipocondria) di Carlo, la sua ossessione. Il principe, tramite Gioachino, se ne prende cura. Ma Ignazio è un personaggio talmente vago che il lettore può riempirlo con ciò che crede. L’importante è che esista e che sia laggiù, con il suo campanellino alla caviglia e il suo corpo non completamente formato.
Aurelia è un
personaggio davvero esistito o l’ha inventato? E Maria Polissena? Con loro
entra nel romanzo il tema delle streghe che sarà centrale nel Cinquecento con
la Controriforma…
Sono esistite
entrambe. La loro storia è vera e documentata. Io l’ho soltanto romanzata.
A parte la musica,
quella di Carlo è la vita di uno sconfitto, non a caso morirà senza eredi,
nonostante abbia fatto tutto quello che poteva per continuare la dinastia, in
quanto i suoi due figli maschi, Emanuele e Alfonsino moriranno entrambi prima
di lui.
I grandi momenti della
vita di Carlo non dipendono da lui, mai: è in seminario e viene richiamato
(controvoglia?) perché muore suo fratello e dunque deve imparare ad
amministrare il regno; fa due matrimoni combinati (il primo finisce come
sappiamo, il secondo, con una d’Este è solo per opportunità politica) che tra l’altro
non è mai lui a combinare, ma qualcuno che decide in sua vece; gli muoiono due
figli; l’unica vera, autentica decisione che prende, a parte quella della
musica, è lasciarsi morire.
Tanto lei è prodigo
di descrizioni e di attenzioni per Maria d’Avalos quanto è scarno e asciutto
per quanto riguarda la seconda moglie di Gesualdo, Leonora d’Este… Con questo
voleva accentuare l’insignificanza di questa donna e il suo ruolo per così dire
marginale nella vita di Gesualdo?
Sì. Maria era famosa
per essere la donna più bella di Napoli: pare fosse tanto bella che su di lei
sono nate storie poco edificanti anche dopo che era morta. Non è detto che
Carlo non l’amasse, e in ogni caso la storia con lei è uno dei centri
nevralgici della sua vita. Di Leonora d’Este importa poco sia a Carlo che a me:
di fatto contano di più il figlio che lei e Carlo ebbero (Alfonsino) e il fatto
che, grazie al matrimonio, si aprirono per il principe, finché non se ne stufò,
le porte di Ferrara – città allora sulla via della decadenza ma che era ancora
una delle capitali musicali d’Europa.
Nel libro i
rapporti tra il principe e le donne si riducono spesso a una dimensione
sessuale per Maria e Aurelia o assenza con Leonora. Perché ha dato questo peso
così rilevante a questa dimensione?
Per la questione dei
corpi di cui sopra, perché così traspare dalle lettere e per far vedere come
una delle principali caratteristiche di Carlo Gesualdo è la bulimia: a tavola,
al liuto, alla spinetta e nel letto. Non credo però che i rapporti tra il mio
principe e le sue donne si limitino alla sfera sessuale: c’è desiderio, anche,
e seduzione, e una complicità – con Maria finché le cose non precipitano e con
Aurelia finché lei non commette degli errori – che esula dalla questione dei
corpi.
Nello scrivere
questo romanzo, quali problemi stilistici si è posto?
Uno fondamentale:
quale lingua deve usare Gioachino? L’italiano del Seicento? Diventerebbe un
libro illeggibile e crollerebbe miseramente tutto il discorso sul testo
apocrifo o meno. Ho optato – grazie allo stratagemma di Stravinskij che legge
il testo in una traduzione contemporanea – per una lingua con echi e costrutti
del passato ma fruibile dai lettori di oggi.
Carlo Gesualdo si
lamenta del fatto che il numero delle note sia finito mentre lui vorrebbe una
musica infinita. Per Stravinskij invece è bene che ci siano dei limiti che
permettono comunque possibilità vastissime. Tarabbia a quale visione si sente
più vicino?
È un altro modo di
riproporre la vecchia diatriba romantici/contemporanei di cui sopra. Non si
scrive al buio, ma si traccia il percorso dentro cui si camminerà.
Dentro questo libro
si nota un dialogo continuo con la nostra tradizione, per il romanzo epistolare
ad esempio “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” di Foscolo, per quanto riguarda
invece il manoscritto ritrovato viene in mente Manzoni e “I promessi sposi”. Sono
due riferimenti a cui voleva fare esplicito riferimento? A quali altri modelli
si è ispirato per questo libro?
Sì, più Manzoni che
Foscolo, in realtà. In Madrigale senza
suono ci sono echi di Bulgakov, Kazantzakis, Malaparte, Volponi, Melville,
Shakespeare (in particolare Macbeth e
La tempesta), Herling (Madrigale funebre, uno dei suoi ultimi
racconti, è dedicato a Gesualdo), Bruno (De
infinito universo e mondi in particolare), Canetti (il cognome di
Gioachino, Ardytti, è una storpiatura del cognome di sua madre), Testori, Mann
(il Dottor Faustus, naturalmente),
Andreev, Bufalino, Sebald, Starobinski, Dostoevskij, Hugo (L’uomo che ride), Freud, Balzac, Mari, Pomilio (Il quinto evangelio), Yourcenar (L’opera al nero), Eco, Casanova e altri,
ma in misura minore.
Nel libro,
soprattutto nella parte legata a Stravinskij compaiono degli strani animali:
una scimmia, una foca e poi un misterioso cane che li porta alla libreria
antiquaria dove Stravinsky acquisterà il resoconto segreto sulla vita di Carlo
Gesualdo. Quale ruolo hanno queste inserzioni animali?
C’è un piccolo bestiario
in ogni mio romanzo: nel Demone a Beslan
erano scarafaggi e scolopendre e un gattino, nel Giardino delle mosche erano le tortore. Qui comincio con una
scimmia e una foca: sono cose realmente accadute a Stravinskij nella sua villa
di Los Angeles. Poi ci sono un cagnetto
nero (evidente riferimento al Dottor
Faustus) e cavalli, lupi e un gabbiano (in una scena che, mesi dopo aver
pubblicato il libro, ho improvvisamente capito essere un rifacimento della
scena con la tortora nel Giardino). Mi
piace che le mie scene vengano a volte raccontate dall’occhio inconsapevole e
metaforico degli animali.
Non è la prima
volta che la musica ha un ruolo centrale in un suo romanzo. Era già successo
con “Marialuce” Da dove deriva questa fascinazione per la musica?
Non saprei. Forse dal
fatto che un po’ suonicchio, ma in realtà non volevo fare, dopo Marialuce, un altro romanzo sulla
musica: è stato Gesualdo a imporsi.
Gesualdo è un
credente eppure la sua religiosità è qualcosa di codificato dalle regole del tempo,
accettata nella sua rigida ritualità. La sua religiosità, per quanto
tormentata, sembra mancare di profondità. È d’accordo con questa visione?
Non saprei. Non sono
in grado di giudicare la religiosità degli altri, soprattutto se sono morti da
quattro secoli. Pare che le opere penitenziali che commissionò fossero sincere,
così come l’intento con cui fece edificare la chiesa di Santa Maria delle
grazie o compose i canti sacri. Ma più in là non oso spingermi.
Nell’ultima parte
della sua vita sembra che Carlo entri in una fase di pentimento e di
espiazione, non a caso commissiona anche la famosa “La pala del perdono”. Che
cosa vuole espiare secondo lei? Per cosa si sentiva in colpa? Era sincero a suo
avviso il suo pentimento?
Non so se sia corretto
dire così: le sue prime composizioni, quando ha meno di vent’anni e non ha
ancora ucciso, sono già su testi penitenziali: ovviamente, questo fa parte di
una tradizione a cui lui si conforma, ma nulla ci vieta di pensare che non
fosse sincero. È un uomo che fa tutto ciò che il suo tempo impone (preghiera,
pentimento e omicidio compresi), ma sarebbe superficiale sostenere che faccia
tutto questo con leggerezza “perché è così che si fa”.
Ne “La buona morte” lei racconta la malattia di suo
nonno e di come questo evento sia stato decisivo per la sua vita. In che modo
questo fatto ha a che fare con la sua scrittura?
Due sono i libri in cui io provo ad andare alla radice
del lavoro che faccio: “La buona morte” e “Il peso del legno" -, quest’ultimo
tra l’altro è un libro di bilancio perché scritto quando ho compiuto
quarant’anni. Credo che se mio nonno non si fosse ammalato, io non avrei mai
pensato di scrivere nella mia vita. Lui si è ammalato nel 1990, quando avevo 12
anni, ed è morto nel 2005. È rimasto paralizzato nella parte destra
del corpo e non ha più parlato. Questo per me ha rappresentato un prima e un
dopo: il nonno prima c’è, poi non c’è più nel modo in cui io l’avevo
conosciuto. Ho questa immagine di me che va a trovarlo a casa sua quando avevo
13, 14 anni e mentre lo guardo in silenzio cerco di entrare nella sua testa e
guardare me con i suoi occhi: chissà cosa pensa di me lui che ora ha questo
sasso nella testa, chissà come mi vede. Ecco, l’idea di mettermi nella testa di
un altro malato viene da lì. Tutte le volte che mi viene chiesto da dove
arrivano le mie storie, da dove arrivi la mia attrazione per il male, la
malattia, il dolore, tutte le volte mi viene in mente questa scena.
Dopo “Madrigale
senza suono” ha già in mente quale sarà il prossimo libro a cui lavorerà? Se sì
può dirci qualcosa?
Non ho idee, ma per me
è normale. Tra un libro e l’altro metto sempre un vuoto di uno o due anni. Non
è una cosa che scelgo di fare: ho soltanto capito e accettato che, dopo gli
anni di lavoro che mi costa un romanzo, ho bisogno di non scrivere per un bel
po’.
Come sta secondo lei la letteratura italiana oggi?
Nonostante quello che si dice, la letteratura italiana
contemporanea sta bene anche se forse non lo sa. Il problema è che si portano
sugli altari le persone sbagliate. Esistono grandissimi scrittori di cui si
parla pochissimo. Penso che Filippo Tuena, Laura Pariani e Angela Bubba
(scrittrice di cui probabilmente pochissimi hanno sentito parlare) siano tre
autori straordinari.
ANDREA TARABBIA è
nato a Saronno nel 1978. Ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi "La calligrafia come arte della guerra" (2010), "Il demone a Beslan" (2011), "Il giardino delle mosche" (2015; Premio Selezione
Campiello 2016 e Premio Manzoni Romanzo Storico 2016) e i saggi "La buona morte" (2014) e "Il
peso del legno" (2018). Nel 2012 ha curato e tradotto "Diavoleide "Di
Michail Bulgakov. "Madrigale senza suono", uscito nel 2019 per Bollati Boringhieri, ha vinto l'ultima edizione del Premio Campiello. Vive a Bologna.